Recensioni - Teatro

Berlino: Il grande platano di Ostermeir per Il Gabbiano alla Schaubühne

Ironica e rigorosa messa in scena per il capolavoro di Anton Cechov

Alla Schaubühne di Berlino Thomas Ostermeir ha debuttato da poco con una nuova e magistrale produzione de Il Gabbiano (Die Möwe), uno dei capolavori di Anton Cechov.

La messa in scena è organizzata nella sala piccola dello stabile berlinese, con il pubblico seduto frontalmente e intorno al palco, quasi ad avvolgere l’azione. Al centro si staglia un immenso e realistico platano che raggiunge con le sue ramificazioni il soffitto del teatro e quasi tutta la platea. Pubblico e interpreti sono per così dire inglobati e uniti da questo imponente elemento naturale.

Ostermeir gioca tutta la vicenda all’aperto, nella natura: i numerosi riferimenti al lago, che nell’originale fa da sfondo all’improvvisato teatro da cui origina il dramma, vengono riferiti a questo immenso platano di cui tutti parlano e sui cui rami si svolge la recita di Kostja. Non manca il cinguettare degli uccelli, lo stormire del vento, i rumori della natura tanto cari a Cechov e soprattutto a Stanislavskij. All’inizio del quarto atto abbiamo anche la pioggia vera, che bagna il palco come da copione.

Il regista organizza una messa in scena al tempo stesso rigorosa e ironica. Rigorosa nel mantenere il testo praticamente nella sua integralità, con solo una modifica nel finale. Ironica perché si ride spesso dei personaggi di Cechov, costruiti come caratteri disperati e ridicoli in cerca di risposte, di felicità, di vita.

Il Gabbiano fu un fiasco al suo debutto e Cechov se ne rammaricò moltissimo. In seguito ritornò al teatro, ma dalle sue lettere sappiamo che pensò sempre di avere scritto commedie, che il pubblico si sarebbe divertito, che avrebbe riso. Non fu così, e lo stesso Cechov non manca di notarlo e in alcuni casi di lamentarsi anche del lavoro del grande Stanislavskij, accusato di fuorviare il significato dei propri testi.

Ostermeir rende giustizia all’ironia presente nel testo, incentrando lo spettacolo intorno allo scrittore Trigorin, che diviene una vera e propria macchietta dell’intellettuale famoso; ma non manca di caricare di comicità anche tutti i personaggi secondari, come la disadattata Masha, una sorta di bambina pessimista che sembra uscita dalla famiglia Adams, e ancora l’insegnante che la sposerà, pieno di tic e manie; oppure l’amministratore della tenuta che nelle sue sfuriate richiama addirittura i capitani spacconi della commedia dell’arte.

Non manca il dialogo con il pubblico, in particolare nel lungo monologo di Trigorin del secondo atto, interpretato in modo impeccabile da un Joachim Meyerhoff in stato di grazia. Qui si rompe la fatidica quarta parete del teatro borghese e si instaura una sorta di complicità con il pubblico, che fa emergere dal testo cechoviano nuove sfaccettature interpretative. Lo stesso dicasi per l’inizio in cui tutti sono spettatori della recita del figlio di Irina Arkadina.

Nessun timore perciò di sviluppare l’ironia e il comico da una parte, con vere e proprie gag, come il passaggio di Trigorin in costume, che va al lago a pescare. Completo rigore dall’altra nel proporre il testo nella sua integralità. L’insieme convince, non ci si annoia, è una festa del teatro per gli attori e gli spettatori.

Solo nell’estremo finale il regista si prende la libertà di modificare il testo, eliminando l’ultima scena, in cui si sente lo sparo mentre la famiglia sta giocando a tombola, per sostituirla con l’entrata del gaglioffo Trigorin che urina contro l’iconico platano. Subito dopo si sente lo sparo e Konstantin crolla in scena morto da dietro l’albero. Sorpresa, sconcerto, buio.

Compatto, affiatato e coinvolto il gruppo degli attori, che si conoscono bene e recitano all’unisono con buone variazioni di ritmo, alternando realismo e commedia in modo naturale ed efficace. Su tutti spicca Joachim Meyerhoff, divertente e allucinato in una caratterizzazione spassosa di improbabile amante e scrittore, ma tanto più efficace perché recitata con convinzione e senza compromessi. Ottimi anche Thomas Bading, un Sorin calibrato e attento, di grande naturalezza e verosimiglianza; la Irina Arkadina di Stephanie Eidt, che ben costruisce il personaggio della grande attrice egoista e avara, riuscendo a trovare accenti assolutamente perfetti anche nelle sfuriate drammatiche; non ultimo il Konstantin di Laurenz Laufenberg, febbrile e concitato, spiazzato lui come il pubblico dall’assurdità dei personaggi che gli stanno intorno e che non riesce a capire.

Alina Vimbai Strähler interpreta una Nina intensa e comunicativa a cui però si devono rimproverare accenti intimistici a tratti troppo sommessi, ai limiti dell’udibile. Simpatica anche la caratterizzazione di Masha di Hevin Tekin, anche qui un po’ più di voce sarebbe stata gradita. David Ruland è un irruento e opportunamente volgare Schamarajev, affiancato dalla corretta e partecipe Polina di Ilknur Bahadir. Completano il cast il composto e calibrato Dottor Dorn di Axel Wandtke e il divertente e caratterizzato Medwedenko di Renato Schuch.

Grandi applausi nel finale.

Raffaello Malesci (Giovedì 28 Marzo 2024)