Recensioni - Teatro

Biennale teatro: All'Arsenale di Venezia Latini porta in scena il blu livido di Testori

Andato in scena mercoledì 7 luglio, all’interno del 49.Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia, un capitolo esemplare che parla del mondo degli ultimi con In Exitu, adattamento per il palcoscenico dell’omonimo romanzo di Giovanni Testori curato, diretto e interpretato da Roberto Latini. Lo spettacolo è stato realizzato in collaborazione con Gianluca Misiti e Max Mugnai, partner di Latini della storica compagnia Fortebraccio Teatro.

La produzione firmata Lombardi-Tiezzi (un progetto che ha visto coinvolti Napoli Teatro Festival Italia, Associazione Giovanni Testori, Armunia-Festival Inequilibrio) allestita per l’occasione al Teatro Piccolo Arsenale, aveva visto il suo esordio poco prima dell’arrivo in Italia della pandemia e torna a essere rappresentata dal vivo in un corpo a corpo all’ultimo respiro tra l’interpretazione e il testo, la drammaturgia tratta dall'originale pubblicato nel 1988 dallo scrittore lombardo.

Hanno scelto una palette di colori che vira al blu Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/forte) per comporre, pensando alla Comédie humaine di Balzac, il racconto in quattro parti della loro Biennale: blue in questo caso è il colore livido del giovane tossico Riboldi Gino, un povero Cristo in croce resuscitato nel ricordo da Testori e redivivo grazie a Latini, artista che ha fatto del rapporto voce-parola-suono uno dei cardini della sua ricerca.

Riboldi-Latini, appare in silenzio, preceduto dalla musica che farà più volte da contrappunto alle scene creata da Misiti e dall’accendersi graduale delle luci, che illuminano tende bianco-sepolcro mosse dal vento, il binario di un treno già perduto da tempo, una rete da tennis frapposta tra attore e pubblico.

Un laccio emostatico-polsino da tennis legato all'avambraccio, prima in mutande e maglietta bordeaux, con una parrucca, poi indossando pantaloni scuri e liberata la testa nuda, tra le mani l’asta di un microfono a mimare una siringa, o una gigantesca spina (un pugnale che trafigge), la creatura si aggira inquieta, nel corpo tutta la frenesia del cercare aria che coglie nel pre-morte. Latini mima una figura cava mossa più che in movimento dal suo dire forsennato. Il palcoscenico coperto di materassi di varia foggia, lapidi da affondo e da inciampo, accoglie le tappe della via Crucis che ha anticipato i momenti vissuti nei bagni della Stazione Centrale di Milano dal giovane uomo prima della morte per overdose. Gino, cade nella tossicodipendenza dalle droghe pesanti, per procurarsele si prostituisce in una Milano grigia e matrigna, la sua una discesa nel sottosuolo alla ricerca del paradiso comune a tanti ragazzi della sua epoca e oltre. Meno comune è la forma con cui Testori ha scelto di raccontarla, un flusso di coscienza di quelli a cui ci hanno abituato grandi scrittori, qui come nel libro snodato come tra ingranaggi rotti tra lo sferragliare di Italiano, Inglese, dialetto lombardo e Latino. L’interprete dà voce, con sapienza e generosità, senza remore né risparmio, a un delirio pulsante, sporco, in cattività già da tempo i ragazzi dello Zoo di Berlino, che racconta lo strazio di una vita breve trascorsa ai margini, guardata dai fossati quando non dalle fogne con occhi limpidi — forse “blu”. Tornano i fantasmi del padre e della madre, della maestra di scuola, dei compagni di buco, di fratelli in croce, a tormentare il morto che cammina.

Quando la lingua affonda nel triviale delle marchette e dei buchi, nel gergo della prostituzione e del “giro”, nel vomito e nei tagli purulenti dei sensi di colpa, musica e luci a tratti sottolineano, a tratti si impongono come portatori di grazia, e di quiete.

Lo sguardo freddo dell’attualità rivolto a questo Riboldi Gino, che se ne va avvolto in un sudario che si gonfia fino a diventare una gigantesca pallina da tennis, a simboleggiare il game over del gioco della vita, o il rimpallo di tanto tormento che giunge fino a noi, non può esimersi dal riconoscere che anche lui in fondo è un consumatore, non di beni né di bene: di se stesso, alla maniera delle candele cave. A commuovere, di rimando, è la natura stessa di queste esistenze, eroiche nel cacciare di casa l’amore per la vita, guardata in faccia senza mascheramenti tutta la sua crudeltà.

Applausi, per il magistrale interprete-traghettatore di tanto tormento.