Recensioni - Teatro

Bologna: ERT-Teatro Fondazione ha portato in scena Scandisk, di Vitaliano Trevisan. Un interessante omaggio allo scrittore, firmato da Jacopo Squizzato

Ha debuttato sul palco del Teatro delle Moline lo spettacolo tratto dal primo dramma contenuto in wordstar(s), trilogia di Trevisan dedicata al tema della memoria

Al Teatro delle Moline di Bologna, è andato in scena in prima assoluta dal 6 al 18 febbraio Scandisk, spettacolo tratto da testi di Vitaliano Trevisan (Sandrigo, Vicenza, 1960-Campodalbero di Crespadoro, Vicenza, 2022).

Protagonista principalmente il primo dramma omonimo — maiuscola a parte — che introduce la trilogia della memoria contenuta in wordstar(s), una raccolta pubblicata da Sironi nel 2004.

La produzione firmata Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale, ente diretto da Valter Malosti, ha visto impegnato nel doppio ruolo di regista e attore il già apprezzato Jacopo Squizzato, sul palco con Mauro Bernardi e Beppe Casales, insieme a impersonare con efficacia tre alienati magazzinieri trentenni, veneti, dai sogni improbabili.

Ad accogliere lo spettatore, nell’allestimento ideato da Alberto Favretto vestito di grigio cemento e luci fredde da magazzino con effetti alla Twin Peaks, i corpi stesi di tre uomini che indossano guanti da lavoro e camici rossi: li sovrasta un cubo che sa di minaccia scritta con il linguaggio dell’architettura.

Spuntano inermi e scomposti, del tutto anonimi, da una montagnola di bancali accatastati rovinosamente. In rappresentazione c’è un crollo. L’esordio dello spettacolo è una scena dove regnano aria di morte, silenzio e immobilità. Dall’ombra, si affaccia la voce registrata di Trevisan, a scandire la lettura di un passo di Un mondo meraviglioso, libro del 1997: lo scrittore parla di lavoro come occupazione — senza kk— di mobilità e di percezione orrenda del vuoto. Lo fa seguendo la sua musica, quella che ha creato, che ha anch’essa in sottofondo uno sferragliare da catena di montaggio, con fantasmi appesi.

Segue, a voltare pagina, il ritmo anni Novanta di What is love, una versione remixata, distorta, del pezzo di Haddaway — molto intonati musiche e sound design curati da Andrea Gianessi — e viene da chiedersi con lui, lì affacciati alla finestra aperta da Trevisan, chissà cos’è.

Il flusso della vita di fabbrica si rianima, si intravede di scorcio una seconda stanza dove si svolge la produzione vera e propria. Affiancato, scorre presto anche quello inquinato dalla fatica e dalla noia di giorni tutti uguali, per i tre magazzinieri al lavoro: Dino, detto Xino il guerriero, più tardi Tiger Man (Bernardi), Michele detto Pelle (Casales), Massimo, detto Massi (Squizzato). La piccola comunità è come in prigione, con tanto di ora d’aria, condannata al lavori forzati.

La ripresa è da tran tran quotidiano, ritmata dai segnali-sirena delle catene di produzione, paesaggi abitati da uomini soli con macchine (il transpallet è sempre in azione, a spostare i bancali Euro da un angolo all’altro del magazzino).

Le chiacchiere tra loro sono scandite da imprecazioni musicate dalla cadenza veneta, da un battagliare solo mimato e nato già perso con chi indossa grembiuli bianchi e comanda, da intermezzi dialogati con battute a doppio senso, di quelle che dovrebbero in arte scongiurare fratellanze troppo agite, da virata omosex. C’è in un bel passaggio un ballo a due molto leggero, divertito, dai connotati del tutto maschili e antichi. A questo proposito, a rinforzare gli argini di contenimento spuntano in ogni dove apprezzamenti a quarto sulle donne, viste come merce sessuale di contrabbando, estero o meno, e a un dato punto come veicolo “alla disperata” su cui montare in corsa per andarsene da lì. Solo Massi parla di una Lisa intoccabile, ma sembra più un’ancora di sicurezza, una banchina d’approdo ostentata da contrapporre alle furie da tempesta che agitano l’aria (più tardi, anche in teatro).

In una scena, Pelle indosserà sul volto un paio di mutandine nere, a rendere visibile ciò che ha sempre in testa ma anche a evocare il passamontagna da rapinatore che vestirà durante il colpo. C’è una rapina a mano armata nei sogni sognati di Xino, che coinvolge Pelle nell’azione pensata come unico modo per uscire dalla palude dove stagnano le loro vite.

A ogni stacco della rappresentazione, riempie l’aria qualche verso d’uccello migratore, una sorta di richiamo a sollevare lo sguardo, e in sottofondo si distingue il ticchettio di una tastiera da pc, marchio di fabbrica del lavoro dello scrittore, e nella scatola degli attrezzi del drammaturgo che fa muovere i personaggi in scena.

Alla pausa pranzo, che si svolge sul retro del magazzino, è riservata una quota riscaldata di ridetto, di rifatto, di gioco ripetuto sempre uguale nonostante lo scorrere di stagioni, e poi di anni: sigarette, pasti confezionati, letture del terzo tipo e finte litigate (fa simpatia un duello combattuto tra uomini e dei, che ai nostri giorni hanno il volto dell’Uomo Tigre). Fanno la loro comparsa, a bolle croniche e senza remissione, sfoghi insani da arrabbiature di matrice sindacale, molto urlati, ma cala il silenzio quando qualcuno volge lo sguardo all’isola che non c’è, un miraggio che ha l’orizzonte di un’oasi WWF che sta dietro la recinzione della fabbrica vicentina. Si tratta di un luogo evocato, animato da strida di volatili protetti, che presto diventerà una palude che aspetta, per affogarli tutti, i “sogni improbabili” dei tre giovani. Molto bello il gesto scenico mimato, ripetuto più volte, in cui i magazzinieri scagliano con violenza verso la platea (il laghetto-palude) dei cuscinetti a sfera lasciando impressa un’immagine poco Flower Thrower, detto alla Bansky, in vero grazie anche agli effetti sonori somigliante al lancio di una molotov da Anni di piombo.

A ospitare la pièce è stato il luogo di Bologna storicamente “votato alla drammaturgia più ostica, impervia e imprevedibile”, ricavato nei locali subalterni di un palazzo dall’imponenza cinquecentesca. Una location appropriata verrebbe da dire, usando il linguaggio dei nostri tempi, per un testo breve così pensato, ma che si lascia pensare, che ha innestati tanti temi a deflagrazione programmata e tanto ricco di immagini di riferimento da sbobinare.

In un’altra messa in scena di scandisk risalente ai primi anni Duemila — anche in quel cast compariva Casales — era stata fatta la scelta drammaturgica di accorpare defrag, il secondo elemento della trilogia scritta da Vitaliano Trevisan, anche per motivi contingenti inerenti la durata di un prodotto destinato non alla lettura, ma allo spettacolo.

A monte, l’intuizione originale ed efficace di Trevisan fu quella di riorganizzare nella raccolta, come materia legata alle procedure dell’informatica (a sistemi operativi d’antan), tre testi che hanno come tema la memoria e i meccanismi dell’obsolescenza, un linguaggio parlato con altri mezzi anche dall’artista vicentino Enrico Mitrovich, con cui Trevisan operò in sintonia all’epoca — tra i crediti, in cartellone Squizzato ha ringraziato Mitrovich e Livio Pacella, che in quegli anni collaborò intensamente con Trevisan e che ha contribuito come consulente.

Nella versione drammaturgica di Squizzato, i tre interpreti recitano caricando dialoghi e movenze, si riduce lo spazio per pause e silenzi che sono propaggini naturali del malessere legato a un lavoro che non dà soddisfazioni e che è occupazione fattiva di tanta parte dell’esistenza — se poi è di Veneto che si tratta, si potesse, anche di più. In coro, gli attori caratterizzano le tre figure in modo che restino appese come maschere, che diventino, che siano le polo rosse (versione estiva del camice che i lavoratori sono obbligati a indossare) che in una scena, letteralmente, finiscono al muro.

A integrare le parole scritte in scandisk sono stati giustapposti alcuni brani scelti appositamente dal regista veronese, in una sorta di omaggio allo scrittore: in apertura, la lettura d’autore già citata e verso la fine, da lui stesso interpretato, un breve monologo tratto da da I quindicimila passi. Un resoconto, romanzo d’esordio di Trevisan molto apprezzato dalla critica anche a livello internazionale, a cui sono stati destinati tra gli altri il premio “Lo Straniero” e il premio “Campiello Francia 2008”. Ma il finale, che arriva e se ne va veloce, è firmato scandisk: al centro della scena, una torre di bancali dietro, Massi-Squizzato terminato il monologo volta le spalle e annuncia il Game Over, in una sciabolata di vento inesorabile, e forse inenarrabile, annunciata da strida di uccelli. Voluti dal regista, ai lati, Xino-faccia al muro e Pelle-mutande in testa, in un assetto da ladroni.

Buio e musica, doverosamente.