Pregevole lo sforzo profuso in questa produzione da una compagine di giovani attori, registi, tecnici e sceneggiatori
Alla fine di questo spettacolo ho avuto, l’impressione di comprendere le istanze di quella generazione recentemente definita “Millenialls”. Le note di regia me ne danno conferma. Ritengo quindi che l’operazione di rilettura in chiave odierna del romanzo russo di fine ottocento abbia centrato l’obiettivo.
I nati negli anni novanta, che stanno coniando un linguaggio nuovo carico di neologismi poliglotti e globali, affetti da una strana forma di nichilismo, a mio parere legittimamente indolente, sembrano non volersi far comprendere, quasi per evitare confronti, dalle generazioni precedenti. Il passare attraverso il filtro di una narrazione antica invece, usando uno stilema classico dell’immedesimarsi e interpretare, del rileggere il passato, mi è sembrato un bel modo per affermarsi.
Generalizzando inadeguatamente, in quell’età che per le precedenti generazioni rappresentava già gli anni della maturità, i non più giovani “Millenialls”, attraverso il prisma ottico de i “Demoni”, trovano uno spazio espressivo istituzionale in cui argomentarsi in uno strano risveglio di coscienza. Anche se, volendo puntualizzare, in certi ambiti ci si arriva solo quando si diventa “da grandi” e le tematiche giovanili passano alla maturità.
La rilettura de “I Demoni” di Fabrizio Sinisi per la regia di Claudio Auelli, produzione del CTB in collaborazione con LAC (Lugano Arte e Cultura) presenta spunti interessanti, ma prende corpo solo a metà dello svolgimento. La drammaturgia, attenta più alla stesura letteraria che al senso della messa in scena teatrale, stagna per quasi un’ora su una narrazione senza vibrazioni, ben recitata, ma eccessivamente verbosa e statica. Dopo questo incipit faticoso prende vivacità con l’improvvisa entrata in scena di una telecamera, a riprendere dal vivo in primo piano i personaggi, innescando un interessante interfaccia scenica, dinamico-espressiva avvalorata dalla luminotecnica puntuale ed elegante. L’idea registica prende corpo e si sviluppa allontanando il tedio precedente, da qui in poi, la soglia di attenzione del pubblico rimane percettibilmente alta fino al finale.
La generazione dei “Millenialls”, con le preoccupazioni verso il futuro carico di incertezze e scarse prospettive, elabora i contenuti dei temi dell’opera di Dostoevskij e li fa propri. Fari puntati sulla platea dei “Genitori” che “ci avete voluti a vostra immagine e somiglianza”: perentoria affermazione rivolta alla platea della moderna borghesia improvvisamente illuminata dai fari e inglobata per qualche minuto nello spettacolo. Una denuncia inaspettata e onesta da parte di chi, con le precedenti generazioni sembrava non volesse scontri o confronti. Da lì in poi il nichilismo disfattista distopico dell’opera madre si consuma rapidamente, negli eventi tragici di suicidio e omicidio, che a fine ottocento ispirarono il grande autore per la stesura di una delle sue opere più significative e annoverata fra i maggiori testi della letteratura occidentale.
Partendo da un riferimento simile era del tutto inatteso un epilogo positivo ma tanto più l’immedesimazione di questa generazione, che più di tutte le precedenti, ha concretamente sentore di un futuro incerto in cui la parola “speranza” e “domani sarà migliore”, non lenisce il senso di inutilità o motiva una propulsione al miglioramento dell’umanità. Per Dostoevskij il nichilismo non rappresenta un punto d’arrivo, ma una frattura col passato, un nuovo inizio.
Così, la frustrazione del movimento nichilista russo, ormai lontana di quasi due secoli, si materializza in un manipolo improbabile di giovani attivisti violenti, pronti a combattere per evitare l’apocalisse climatica e puntualmente disillusi dalla realtà. Le aspettative deluse sfociano in una presa di coscienza autodistruttiva.
L’esperienza dello spettacolo, o forse la rievocazione de “I Demoni”, non mi ha lasciato indifferente e ha fatto scaturire in me numerose riflessioni che ho voluto riportare, in parte, per spiegare che l’intento poetico della rappresentazione è nobile, la trasposizione di Sinisi pregevole e la regia oculata; gli attori realistici e bravi con l’ausilio della telecamera, efficienti quando sguarniti dall’espediente della proiezione live.
La produzione non sembra fornita di budget adeguati e così la messa in scena nella solita scatola nera passa più per una necessità che una scelta. Regia e drammaturgia hanno un valore più cinematografico che teatrale e rendono vivace e fruibile lo spettacolo solo quando le scene vengono riprese dal vivo. Il teatro non è letteratura o cinema, ha un suo linguaggio che purtroppo oggi in pochi conoscono e adoperano. Su due ore di spettacolo ci si annoia per un’ora.
con Alfonso De Vreese, Lorenzo Frediani, Leda Kreider, Mauro Lamantia, Marta Malvestiti, Francesca Osso, Antonio Perretta, Emanuele Turetta, Carlotta Viscovo