
Andrea Chiodi trasforma la farsa di Molière nell’improbabile dramma psicologico dell’autore incompreso
Debutta la nuova produzione del CTB al Teatro Sociale: Il Malato Immaginario di Molière. Lo spettacolo è stato affidato alla regia di Andrea Chiodi con l’adattamento e traduzione di Angela Dematté.
Il regista trasforma la sapida e fulminante farsa di Molière in una sorta di dramma psicologico, in cui Argante è lo stesso Molière, accoccolato a scrivere in una bianca vasca da bagno, in quello che potrebbe essere un sanatorio per malati di mente.
Tutto va di conseguenza, in un affastellarsi di trovate che poco hanno a che fare con il testo di Molière, che è e resta una farsa. Abbiamo una bianca parete di mattonelle che fa sempre ospedale, la nostra vasca appunto, ma con tanto di macchina da scrivere perché cos’altro è Argante se non un novello Marat? Il cesso in scena, che contribuisce a rovinare tutto il gioco drammaturgico fra entrate e uscite sugli espellenti umori del protagonista e lo scheletro di un candelabro settecentesco, adornato con siringhe penzolanti. Non può mancare il balletto iniziale e finale, o sarebbe meglio dire una performance di espressività corporea, con tutti i personaggi in guêpière e calze a rete. Un bel rimando sessuale, a metà fra un incubo steampunk e una rivisitazione del Portiere di Notte della Cavani. Un regista deve pur far vedere che esiste.
I denari però non abbondano e la produzione ne risente, così la parete bianca è lì un po’ solitaria in una banale quadratura nera. Scene di Guido Buganza. Mentre i costumi di Ilaria Ariemme non vanno oltre il trovarobato d’accatto, con la serva Tonina che, chissà come mai, sembra una Maria Stuarda uscita dagli anni cinquanta del novecento.
Quando il regista lascia parlare Molière si ride anche, ma è chiaro che siamo al teatro stabile e perciò non bisogna far ridere troppo: non fa cultura. Allora, oltre a tagliare il notaio, regista e drammaturga decidono di far sentire l’esilarante scena della figlioletta, un pezzo di magistrale comicità se fatto come scritto, in una registrazione francese d’antan abbastanza incomprensibile; nel mentre il protagonista si dispera nella sua vasca da bagno. L’inserimento di una lettera di supplica di Molière al Re è un vezzo culturale d’obbligo, che contribuisce però ad appesantire il già lungo dialogo sui medici, parte già debole nella drammaturgia originale. Di quanto sia innovativo il gioco con la parrucca del settecento a rappresentare autore, modernità, passato, presente, vita, morte, ispirazione e così via… lascio a voi giudicare.
Chiaramente nel finale il protagonista, dopo essere morto per finta, muore sul serio. Prima torna la ripetizione del balletto iniziale e un tentativo di proporre la parodia in latino della sua investitura a dottore. Poi cala il lampadario, in un rimando forse involontariamente comico al fantasma di Gaston Leroux, e finalmente il nostro Malato può morire.
Gli attori si impegnano ma si nota che la preparazione è in ritardo e tutti sono arrivati ancora insicuri alla seconda replica. Fa eccezione la Tonina di Lucia Lavia, che, come suo solito, ha una preparazione precisa e maniacale. Il personaggio risulta meccanico, ma qui la regia ci mette crediamo del proprio.
Tindaro Granata non brilla come protagonista e ci è sembrato ingabbiato in un personaggio che non ha metabolizzato. Lo stesso dicasi per il pur bravo Angelo Di Genio nell’ingrata parte del fratello Beraldo. Gli altri: Emanuele Arrigazzi, Alessia Spinelli, Nicola Ciaffoni, Emilia Tiburzi, Ottavia Sanfilippo.
Più di due ore e dieci minuti di atto unico. Non convince.
Raffaello Malesci (Mercoledì 15 Gennaio 2025)