Il grande illuminista e promotore dell’Encyclopédie non ha dubbi, l’attore lavora non con i soli sentimenti, ma elaborando i sentimenti con il cervello
“Le lacrime dell’attore provengono dal suo cervello”, così chiosa Denis Diderot nel suo “Il paradosso sull’attore”, apparso postumo a Parigi nel 1830, ma compilato da Diderot negli ultimi anni del settecento.
Curioso pamphlet in puro stile illuminista il “Paradosso sull’Attore” nasce per una singolare coincidenza, infatti Diderot viene spinto ad iniziare la compilazione dalla lettura di “Garrick, ou les acteurs Anglais” ad opera di Fabio Sticotti, che traduce e modifica un testo inglese di John Hill del 1750, “The actor: a Treatise on the Art of Playing”, a sua volta, ad insaputa di Sticotti, una traduzione dal francese del celebre trattato “Le Comédien” di Sainte-Albine. L’idea dell’attore sentimentale propugnata da Sticotti è dunque in realtà quella di Sainte-Albine passata per varie traduzioni avanti e indietro per la Manica.
Diderot si pone contro l’idea dell’attore sentimentale e la confuta scegliendo la forma dialogica di platonica memoria, ove, in una immaginaria discussione, Diderot prende le parti dell’attore che usa la ragione e non il sentimento.
La sua tesi principale è che gli attori possano riprodurre verosimilmente i sentimenti sul palcoscenico solo se non si lasciano coinvolgere emozionalmente, dunque se restano del tutto “freddi”. Nel corso del dialogo argomenta che gli attori emozionali possono avere sì dei bei momenti in cui coinvolgono il pubblico, ma questi saranno affidati al sentimento del caso, la performance nel suo insieme sarà comunque disuguale e questi momenti non saranno riproducibili sera dopo sera.
Nel corso del dialogo Diderot cita due grandi attrici della Comédie-Francaise, che peraltro non ebbe mai modo di vedere: Hyppolite Clairon (1723 – 1803) e Marie-Francoise Dumesnil (1713 – 1803), la prima era l’attrice ideale per Diderot, basando il suo lavoro sull’osservazione, la riflessione e il controllo. Mentre la Dumesnil era caratterizzata da naturalezza incontrollata, sentimento e passione, tanto da far dire a Diderot: “Ella sale sul palco senza sapere cosa andrà a dire e per metà dello spettacolo non ha la minima idea di cosa sta dicendo, poi improvvisamente arriva un momento sublime”.
Nel corso dell’immaginaria conversazione Diderot illustra perciò la sua tesi. L’attore deve essere sì un preciso osservatore della natura, ma questa non deve assolutamente essere riprodotta tale e quale sul palcoscenico, ma secondo un modello ideale costruito dall’immaginazione e controllato dalla tecnica.
“…una sensibilità eccessiva crea interpreti mediocri; una sensibilità media crea la massa dei cattivi interpreti, la completa mancanza di sensibilità è la base per i grandi interpreti. (…) Pensate per un attimo cosa vuol dire in teatro essere vero. Significa mostrare le cose così come sono in natura? Assolutamente no. Il Vero in questo senso sarebbe solo l’usuale. Cos’è dunque il vero sul palcoscenico? E’ la corrispondenza delle azioni, dei discorsi, delle forme, delle voci, dei movimenti e dei gesti con il modello ideale inventato dal poeta.”
L’ideale poetico dunque come modello di vita e di teatro, per cui servono interpreti calibrati, controllati, ligi al dettame poetico dell’autore. Non siamo poi così lontani dalla ricerca barocca di un mondo ideale sul palco; in realtà è il mondo che è cambiato e il ricciolo barocco e lo svolazzo rococò si sono trasformati nella stele classica e nel coturno greco. Un ideale illuministico del mondo insomma: scienza, ragione, classicità e misura a cui l’attore si deve adeguare per riprodurlo al meglio.
L’attore deve diventare un ragionatore al servizio del poeta e lo sarà a lungo, fino a quando sarà spazzato via dai languidi sospiri della temperie romantica.
R. Malesci