
Anica Tomić mette in scena un complesso adattamento del testo teatrale del 1936
Innsbruck dedica una sontuosa e impegnativa produzione ad uno degli autori più singolari della letteratura tedesca mitteleuropea del periodo fra le due guerre: Ödön von Horváth.
Nato praticamente in Italia, a Fiume nel 1901, Ödön von Horváth è il tipico prodotto del crepuscolo di quella che Robert Musil chiamava “Cacania” (K.u.K da kaiserlich und königlich ovvero imperial-regio): l’agonizzante doppia monarchia imperiale di Francesco Giuseppe. Di lingua madre tedesca con padre ungherese, trascorre la sua breve vita fra Monaco, Budapest e Murnau, per poi dover fuggire a Parigi perseguitato dai nazisti, dove morirà schiantato da un albero sugli Champs-Élysées durante un temporale.
Ödön von Horváth diviene famoso soprattutto per Geschichten aus dem Wiener Wald (Storie del bosco viennese), una commedia satirica che metteva a nudo le grettezze della piccola borghesia austriaca del tempo. A seguire il grande successo dei romanzi Der ewige Spießer (L’eterno filisteo) e il tardo Jugend ohne Gott (Gioventù senza Dio). La commedia Figaro lässt sich scheiden (Figaro divorzia) è del 1937 e avrà la sua prima rappresentazione a Praga.
Fin dalle prime commedie di successo la scrittura di Horváth si caratterizza per scene veloci, spesso frammentate e con notevoli salti temporali. La scrittura è sempre per quadri, quasi cinematografica. Nel caso di Figaro, l’autore riprende il mito del servo scaltro creato da Beaumarchais nella sua trilogia. Oggi si direbbe che ne fa un “sequel”, con Figaro, Susanna, il Conte e la Contessa costretti a fuggire dall’avvento della rivoluzione francese.
Operazione culturale in piena aderenza alla lettura storicizzante e interpretativa coeva a Horváth, che, a ragione, vedeva Beaumarchais come un paladino e anticipatore della incombente rivoluzione francese. In qualche modo un’istanza figlia del tempo di Horváth, che ricorda da vicino i racconti storici ex-post di Stefan Zweig. Senonché Horváth mantiene intatta tutta la sua verve satirica e fa del quartetto di servi e padroni una piccola comunità di emigrati in fuga. Chi meglio si adatta alla nuova situazione è ovviamente Figaro, che prende l’iniziativa e apre un suo salone da barbiere, per poi tornare in patria e diventare direttore del castello del Conte. Questa sua intraprendenza però gli aliena l’amore di Susanna, che lo lascia anche per il suo rifiuto di avere figli. Il Conte e la Contessa, quasi in una situazione cechoviana da Giardino dei Ciliegi, non riescono ad adattarsi alla nuova condizione: la contessa muore e alla fine il Conte è costretto a ritornare al castello dove Figaro è il nuovo padrone. Anche Susanna, oppressa dalle difficoltà, è costretta a ritornare suo malgrado a chiedere la protezione di Figaro, novello filisteo, piccolo accaparratore in piena sintesi con le tematiche più care ad Horváth.
A Innsbruck la messa in scena è stata affidata alla regista croata Anica Tomić, coadiuvata per le scene da Mila Mazić, per i costumi da Drina Krlić. Le musiche sono a cura di Nenad Kovačić e le coreografie di Lada Petrovski Ternovšek. Il testo ha subito molte varianti a cura della drammaturga Jelena Kovačić, coadiuvata anche da Sonja Honold.
La regista, insieme alla drammaturga, scelgono un taglio contemporaneo e spiccatamente metateatrale. Pur seguendo nella sostanza, anche se con numerosi tagli, il testo di Horváth, scelgono di inserire il personaggio fittizio di Danton, come rappresentante della vera rivoluzione, ove Figaro ne è solo un simbolo. Calcano inoltre la mano sul teatro nel teatro nel momento che sottolineano più volte che Danton non dovrebbe essere lì, oltre a mettere in bocca agli attori rimandi metateatrali sul fatto di essere all’interno di una commedia. Questo, se da una parte ingenera riflessioni sulla rivoluzione come assunto teorico in contrasto con la rivoluzione in atto, ingenera non poca confusione in un testo già di per sé fra i più frammentari di Horváth.
Il finale riconciliativo, abbastanza in minore dobbiamo dirlo, viene poi sovvertito con l’introduzione di due lunghi monologhi sul capitalismo e una scena da fine dei tempi con i personaggi lasciati soli a vagare in un paesaggio bianco e asettico.
La messa in scena è sontuosa e varia, con diverse buone idee molto estetizzanti: dagli alberi secolari del primo atto che cadono sotto i colpi della rivoluzione, ai figli trovatelli di Figaro nel secondo atto che si trasformano in proto nazisti irreggimentati militarmente. Continua e ininterrotta la varietà di scene, luci e trovate sceniche: abbiamo il mobile salone della barberia, che arriva su rotelle con bell’effetto; le arance che rotolano in scena per poi essere raccolte e lanciate con impeto da Susanna; i tableaux vivant di sapore pittorico; il finale quasi cinematografico con una luce livida e i personaggi che sembrano usciti da un inverno nucleare.
Grande impegno, ma alla fine, purtroppo, l’impressione è di una confusione estetizzante. La commedia non decolla realmente, il pubblico ridacchia qua e là, ma il comico non prende mai piede. La drammaturgia sbaglia la misura tagliando troppo o aggiungendo troppo altrove. Infine le trovate sceniche mancano spesso l’appuntamento con il testo, restando solluccheri visuali fini a sé stessi.
Insomma a teatro il troppo diventa nulla: sabbia che a fine serata scivola via senza lasciare traccia.
Peccato perché la regia disponeva indubbiamente di un ensemble di prim’ordine a partire dal bravo Pasquale di Filippo, che riesce a rendere piacevole anche una parte di poco spessore come Danton. Cinico e disincantato il Figaro di Wojo van Brouwer, che ben si destreggia nella parte e conduce la scena con maestria ed esperienza. Daniela Bjelobradić è una Susanna convincente con ottimi tempi scenici. Ironico, simpatico e svagato il Conte di Patrick Ljuboja.
Bravi e professionali tutti gli altri: Cansu Şîya Yıldız, Marion Reiser, Tommy Fischnaller-Wachtler, Philipp Rudig, Florian Granzner.
Raffaello Malesci (Sabato 21 Giugno 2025)