
Per la stagione del Teatro Nuovo di Verona viene proposto Hedda Gabler di Henrik Ibsen prodotto dal Teatro Stabile di Trieste per la regia di Antonio Calenda.
A teatro si suole ogni tanto dire “sembra Ibsen” riferendosi a messe in scena particolarmente cupe, tristi o tragiche. Ecco in questo caso Ibsen “sembra” effettivamente Ibsen poiché la scena consiste in due colonne nere, un grande sudario che scende dall’alto, pochi mobili tetri, velluti scuri, luci soffuse, costumi spenti. La recitazione che ne segue non si smentisce: tutti i personaggi entrano con un aria tragica anche quando dicono semplicemente buongiorno, la stessa cameriera annuncia gli ospiti come annunciasse la morte di qualcuno. Non è ancora successo niente ma dietro ogni frase si sottintende il dramma, come si suole dire si telefona il tragico che dovrà accadere.
Gli interpreti (Manuela Mandracchia, Luciano Roman, Jacopo Venturiero, Federica Rossellini, Massimo Nicolini, Laura Piazza) sono certamente professionali e coinvolti, ma eccedono tutti in una recitazione enfatica e caricata. Eccetto Simonetta Cartia (La Zia), che riesce a mantenere una certa naturalezza, tutti gli altri sembrano presi da continue nevrosi freudiane e da profonde e diffuse malinconie.
La domanda che sorge spontanea è se oggi sia attuale o necessario presentare Ibsen in questo modo. Se nell’ottocento Ibsen stesso propugnava il naturalismo, mi pare che questo tipo di allestimento vada in direzione completamente opposta, proponendo più che altro un accurato cliché dell’idea che si ha di tragedia.
Il pubblico non particolarmente numeroso ha gradito lo spettacolo.
R. Malesci (29/11/13)