Franco Branciaroli domina nel bene e nel male una produzione costruita intorno a lui
Dopo il debutto estivo al Teatro Romano di Verona, arriva a Brescia “Il Mercante di Venezia” di Shakespeare con la regia di Paolo Valerio e Franco Branciaroli nelle vesti di Shylock.
Spettacolo nato, costruito e pensato per il mattatore, attorno cui tutto gira. Franco Branciaroli certo non perde l’appuntamento con uno dei personaggi iconici per ogni attore, almeno dal Novecento in poi.
Egli, infatti, regala una lettura interessante, limitando i suoi caratteristici “birignao”, per costruire un personaggio interamente giocato su una vocalità roca e minuziosa e su una perfidia fine a sé stessa. Branciaroli ha sicuramente il merito di non cadere nella tentazione di rendere simpatico l’ebreo Shylock, ma nello stesso tempo non rifugge dagli accenti comici e caricaturali della commedia, consegnandoci un ebreo magnetico, curvo, intriso di cattiveria, macerato dal livore e con una sottile vena di autoironia. Non disdegna poi di pescare nel repertorio dei comici dell’arte, utilizzando il “tormentone”; infatti, ripete con monotona reiterazione la parola “penale”, con effetto farsesco e visibilmente compiaciuto. Branciaroli sa di essere il mattatore, uno dei grandi vecchi del teatro, e ci gioca volentieri.
In fondo, lo spettacolo è nato da lui, per lui e intorno a lui. Il resto, dalla regia agli altri interpreti è contorno. È un dato di fatto innegabile dell’attuale asfittica organizzazione teatrale in Italia, una deriva se vogliamo. Riprova di involontaria comicità ne è stato l’annuncio diffuso prima dell’inizio dello spettacolo relativo ad alcune sostituzioni dovute a casi di positività al covid.
L’annuncio era il seguente: “Buonasera, vi informiamo che a causa di indisposizione, alcuni attori saranno sostituiti da altri attori”.
Magari non c’era intento denigratorio verso quei poveri “altri attori” che sostituiscono altrettanto poveri “attori”, che a loro volta non hanno il merito o l’importanza nemmeno di venire citati. Forse è stata una formulazione infelice fatta in velocità, ma in questa piccola frase, di per sé quasi freudianamente comica, c’è tutta l’essenza del teatro italiano oggi.
Un teatro che non vive se non di divismo, un teatro che non ha senso oltre il mattatore, un teatro dove la compagnia, l’ensemble non conta, non esiste, ci sono solo “attori” mercenari a servizio di chi detiene il potere produttivo, le fila politiche o burocratiche di un teatro finanziato centralmente con criteri scellerati e opachi. Un teatro di burocrati bravi a compilare tabelle, resoconti e formule lambiccate che assicurino il massimo punteggio a Roma. Un teatro affidato ai punteggi ministeriali anziché alle scelte artistiche, senza che nessuno si prenda il tempo di andare a vedere sul campo i risultati frutto di questi punteggi.
Dunque, Branciaroli è un grande Shylock, ma il contorno, affidato ad “attori” e non a colleghi, amici o membri di una compagnia stabile, è modesto, a tratti dimesso. Non possiamo dire di più in quanto non sappiamo chi ha sostituito chi. Citiamo solo l’ottima prova di Francesco Migliaccio, sempre preciso e professionale oltre ad essere spassoso nell’imitazione dello Shylock del mattatore.
La messa in scena di Paolo Valerio, con scene di Marta Crisolini Malatesta e costumi di Stefano Nicolao, risulta pulita ma sostanzialmente illustrativa. Una scena cupa, tutta a mattoni neri, con porte che si aprono e si chiudono, le immancabili panche in scena, attori che entrano ed escono, salgono al “balcone” shakespeariano per dare un minimo di variazione. Ovviamente lo spettacolo si apre e si chiude su Shylock, con una prima apparizione in piena luce, in silenzio essendo completamente fuori contesto, che sembra avere l’unico scopo di chiamare l’applauso ad osanna del protagonista. (Cosa che fra l’altro, anche se con qualche incertezza è puntualmente avvenuta). Il finale poi doveva per forza chiudersi nuovamente con Shylock, anche se il testo va in direzione opposta, e qui bisogna dare atto al regista di aver azzeccato una buona idea, con l’apparizione quasi comica e allampanata dell’ebreo che è costretto, essendosi fatto cristiano, ad ingoiare un’ostia consacrata.
Inizio e finale sono per lui, per il mattatore, per il “motivo” dello spettacolo, il resto scorre veloce, dimesso, indifferente, anestetizzato. La differenza di levatura fra Branciaroli e gli altri attori, in particolare le parti minori, è abissale e anche questo la dice lunga sulle scelte e sulle dinamiche che presiedono alle produzioni.
Che dire dunque? Vale la pena di vedere Branciaroli, che si dimostra cavallo di razza. Il resto è una cartina di tornasole del teatro italiano, che non ci piace. Verranno tempi migliori? Ne dubito.
Molti applausi nel finale per tutti.
Raffaello Malesci (21 ottobre 2022)