
Al Piccolo Teatro la tragedia di Jean Racine
Arriva al Piccolo Teatro di Milano Fedra di Jean Racine, tragedia di rara esecuzione del 1677. La messa in scena è della compagnia Lombardi – Tiezzi, insieme ad Emilia Romagna Teatro e ai Teatri di Pistoia.
Federico Tiezzi ne cura la regia, impostando lo spettacolo con il coraggio di un rigore e di una formalità tragica museale. La scena, a cura di Franco Raggi, Gregorio Zurla e dello stesso Tiezzi, è semplice e avvolta nell’oscurità. In questa penombra si stagliano pochi arredi classici uniti a sedie sbilenche e tavoli moderni; un sipario dorato che funge da divisoria per i cambi scena e il susseguirsi degli atti; quattro busti di matrice classica, che richiamano la grecità e l’ambito museale; mentre sullo sfondo si alternano alcune icone simboliche di non facile interpretazione: un quadro di Guido Reni, Atalanta e Ippolito, un lupo, un bonsai racchiuso in una specie di vivaio elettronico.
I movimenti sono lenti, calibrati, a tratti ieratici. Spesso i personaggi entrano di spalle, piegati, contorti. I passaggi da una scena all’altra sono sobri, senza enfasi, con l’inevitabilità classica non di uomini, ma di visioni mosse dalla volontà divina.
Tiezzi scommette sulla parola, sul verso ampolloso e sonoro di Jean Racine, magistralmente trasposto in italiano da Giovanni Raboni. Scommette e vince. Concede poco alla spettacolarità, creando un canto tragico, rigoroso, formale, aulico, scolpito negli accenti del verso. Uno spettacolo che richiede attenzione e abnegazione, uno spettacolo che a tratti respinge, affatica ove non sempre l’attore riesce a tenere l’appiglio magnetico della parola legato alla sua presenza in scena; uno spettacolo che alla fine esce vincitore. Una serata in cui il teatro, la parola, il racconto, la carne dell’attore e il respiro del pubblico ne escono esaltati e indomiti. Questa Fedra è un momento per pochi, un respiro comune; non è vietato far vagare i pensieri, sentire lo sforzo che richiede l’attenzione, ma il complesso affascina, convince.
Convince anche grazie ad una immensa Elena Ghiaurov come Fedra. Un’attrice allo sfolgorio della maturità, che sa declamare con intelligenza; è a suo agio a giocare con l’enfasi, piegandola ad un finissimo alternarsi di accenti che sanno d’antan ma profumano di modernità; sa, non priva di ironia, tornire le parole nella tradizione e svettare nella contemporaneità.
Al suo fianco Bruna Rossi disegna una nutrice, Enone, magistrale. Il regista spinge sullo stereotipo e l’attrice ne coglie tutte le sfumature dell’eccesso: dal granguignolesco senechiano fino al verso tornito in stile francese, senza mai il timore di un’esagerazione che diventa cifra stilistica, parossismo vocale, sollucchero tragico.
Massimo Verdastro è un Teramene di eccezione, che riesce a infondere nella parola la vita del racconto raciniano. Superbo il monologo finale, in cui racconta la morte di Ippolito: l’attore riesce a inchiodare il pubblico dopo quasi due ore di spettacolo con la semplice e immaginifica capacità evocativa delle parole e del racconto.
Corretti gli altri interpreti, che però faticano a volte ad essere presenti e comunicativi: Catherine Bertoni de Laet (Aricia), Valentina Elia (Ismene), Riccardo Livermore (Ippolito), Martino D’Amico (Teseo).
Il pubblico, con molti studenti in sala, ha a tratti faticato a seguire, ma nel finale ha tributato calorosi appalusi.
Raffaello Malesci (Venerdì 11 Aprile 2025)