Recensioni - Teatro

Padova: Clitennestra, ovvero, se gli Dei non stanno a guardare

Isabella Ragonese interpreta la madre ferita cantata da Colm Tóibín. Roberto Andò, ha firmato adattamento e regia dello spettacolo

Il Teatro Verdi di Padova fino al 28 gennaio ha ospitato Clitennestra, interpretato da Isabella Ragonese, spettacolo tratto dal romanzo La casa dei nomi, di Colm Tóibín, proposto in un adattamento firmato dal regista palermitano Roberto Andò, che ne ha anche curato la regia. Il lavoro proseguirà in questi giorni la sua tournée nel circuito dei teatri dello Stabile del Veneto e farà tappa a Venezia, al Teatro Goldoni, fino al 4 febbraio.

In scena, c’è la trasposizione della versione del mito greco creata dallo scrittore irlandese. Non è una premessa ridondante, è doverosa: per rispetto, è necessario sgombrare il campo da contaminazioni filologiche che in questo caso avrebbero pesantezza e dimensioni ciclopiche di macigni. Struttura e contenuti del romanzo sono stati rivisitati, amputati in parte da Andò; nella drammaturgia è rimasta invece una sostanziale fedeltà al linguaggio espresso da Tóibín. La produzione del Teatro di Napoli (che attualmente è diretto da Andò) porta sul palco storia e vicende che videro come protagonista la regina di Micene lasciando impressa la loro aura senza tempo, ma collocandole in un’ambientazione novecentesca e più in là utilizzando direttrici legate all’attualità e al contemporaneo.

Ad accogliere lo spettatore è un velo grigio, opaco, dietro il quale si muovono ombre e voci; tornerà ad abbassarsi nel finale, celando ancora una volta sagome nere e parole che si muovono come spettri da Commedia (Divina, invero) fagocitate presto dall’oblio.

Alzato il velo, è apparsa una scenografia molto interessante articolata per piani, resa labirintica e frammentata grazie all’utilizzo di altri teli/pareti, un piccolo mondo antico dai connotati un po’ pulp: gli ambienti creati ad arte da Gianni Carluccio — che ha curato in modo molto efficace anche le luci — insieme alle musiche scelte da Pasquale Scialò, soprattutto gli effetti di sottofondo, hanno introdotto in spazi/agoni da Fight Club dai toni grigio-cemento, in alcuni punti arrossati dalla ruggine, rianimati come in infusione da un costante gocciolio da pluviale (di connotazione sanguigna, per lo più) — l’acqua del resto è un elemento importante nel testo di Tóibín. Clitennestra/Ragonese rivive come in flashback gli eventi della sua vita, quindi è perennemente in fibrillazione: è questa la marcia impressa dall’attrice al personaggio protagonista, lasciata in sottotraccia ogni radice voluttuosa. La donna indossa un vestito da sera/sottoveste color lutto che si contrappone agli abiti bianco-candore delle sue figlie, Ifigenia (Arianna Becheroni), l’agnello sacrificale, ed Elettra (Anita Serafini), giovane che porta impressi esiti quasi da elettroshock, a causa delle tragedie che l’hanno coinvolta con la sua famiglia.

Collocato in un mondo sociale e famigliare di uomini che decidono ogni cosa, e di donne che li seguono come cani più o meno fedeli, il personaggio di Clitennestra in questa veste si rivela non tanto essere una “cagna rabbiosa”, una furia: meno lupa del dovuto, ma pur sempre in contatto con gli inferi, si mostra in prevalenza con volto di madre ferita. Il dramma prosegue esasperato all’eccesso, meno mitico e più patologico, come si direbbe adesso: Clitennestra mette in atto la sua vendetta, diventa mandante di azioni efferate, non guarda più al cielo, se mai l’avesse fatto, e non sente affatto la nostalgia di case piene di nomi. Ma represso l’effetto Joule, la potenza che fa muovere tempeste, caos e distruzione, Tóibín e Andò tolgono voltaggio all’azione — il primo a favore di una narrazione che dà più spazio ai figli, soprattutto alla storia di Oreste, figura esiliata dallo spettacolo di Andò (tranne nel colpo di scena finale); il secondo imprimendo con vigore al gruppo i connotati di una famiglia disfunzionale. Venendo agli altri uomini: ad Agamennone presta voce e corpo guerriero Ivan Alovisio, che si mostra scolpito e nudo in scena, nella vasca che lo vedrà prima trionfante, poi trucidato; Achille resta distante, col pensiero rivolto altrove, alla battaglia che incombe, sta ai margini del dramma di Clitennestra (è interpretato da Denis Fasolo); Egisto appare in toccata e fuga, indossa i suoi panni Federico Lima Roque — l’attore gli dà voce con inflessioni esotiche (portoghesi) che giungono all’orecchio un po’ forzate e accentuano l’estraneità della figura, accade soprattutto se si ha in mente l’Egisto altero e “magico” forgiato da Tóibín.

Il coro è in scena, articolato nei movimenti musicali e scenici da Pasquale Scialò. Restando a questi ultimi, molto riuscita è la scena da sabba, davvero mannara, che ha messo in rappresentazione l’assassinio-sacrificio di Ifigenia; altrove in alcuni punti si è riscontrata qualche lentezza, riscattata in parte dall’effetto plastico dei quadri raffigurati.

Ho dimestichezza con l’odore della morte, recita l’incipit del libro, e una voce fuori scena pronuncia queste parole e quelle che seguono all’inizio dello spettacolo, dove ci si affaccia in un regno di vivi e di morti (che non ha fine): le tracce di sangue del tutto umano sono sotto agli occhi, gli spettatori possono vederle narrate, ma l’odore nauseabondo e zuccherino non si sente, non è vicino; c’è invece forte un lamento stabilizzato da un legante che è la perdita espresso in toni di carattere molto femminile, non del tutto fiero.

“Gli uomini non sono Dei e gli Dei non stanno a guardare”: potrebbe essere un sottotitolo pertinente per lo spettacolo, applaudito dal pubblico del Verdi.