Recensioni - Teatro

Padova: The City, diretto da Jacopo Gassmann, esplora il testo denso di Martin Crimp, presentato per la prima volta in italiano

Una finestra sul cortile sui teatrini di casa, quelli di coppie e famiglie in crisi, nella messa in scena che parla d’amore… per la scrittura

Il Teatro Verdi di Padova, dal 28 febbraio al 3 marzo ha ospitato lo spettacolo The City, la cui programmazione poi approderà al Goldoni di Venezia. La produzione è imponente, firmata Lac (Lugano Arte Cultura), Teatro Stabile del Veneto, Teatro dell’Elfo, Emilia Romagna Teatro e Teatro Piemonte Europa, per questa commedia nera che vede impegnato alla regia Jacopo Gassmann.

Tratto dal testo omonimo di Martin Crimp, proposto per la prima volta in lingua italiana nella traduzione di Alessandra Serra, The City è nato da una costola di L’uomo flessibile, romanzo di Richard Sennett e di Il pomeriggio di uno scrittore, di Peter Handke, come ha dichiarato lo stesso Crimp, autore britannico di rilevo nel panorama drammaturgico contemporaneo. “Influenzato da Beckett, Pinter e Mamet”: Gassmann, chiamando in causa anche altri padri, ha definito così la poetica complessa e articolata di Crimp. Il retroterra testuale, culturale, in cui affonda le radici il lavoro a teatro si avverte chiaro, occhi, orecchi e anche i polpastrelli allertati fin dai primi istanti della messa in scena.

Ad accogliere lo spettatore è una scenografia che evoca una sorta di vetrofania in dilatazione prospettica, ci si trova affacciati a una finestra sul cortile al contrario che guarda l’interno di un’abitazione cittadina dall’assetto asettico, del tutto minimale, dove domina un bianco di quelli che piacerebbero a Bret Easton Ellis. Curata magnificamente da Gregorio Zurla, con Gianni Staropoli a dare un forte contributo coi giochi di luce, la scena è un’anima viva, un attore muto ma intensamente partecipe: a tratti le pareti si sfogliano a strati, a tratti (letteralmente) inquadrano, quasi l’esito di atti da macchina da presa; spesso la casa cambia colore, virando pur nel bianco in toni cupi, o accesi, in colori fluo, in quadri blu assurdamente cosmici o in sfumature rosa-casa di bambola, tutto a seconda di ciò che accade sul palco. In alcuni momenti, pochi, l’ambiente si scalda e si irradia un calore da focolare, ma poi subito nella casa quasi-serra (anche un po’ galattica) tutto si raffredda — troppe raffiche di ghiaccio. Il freddo del disamore prevale, nelle atmosfere e anche in questa scenografia complice, che diventa pagina.

Gli attori sul palco, Lucrezia Guidone (Clair) e Christian La Rosa (Christopher) interpretano una coppia con figli piccoli, più tardi farà la sua comparsa la figlia cresciuta. Tutto, cioè niente, avviene tra loro. A portare in quel microcosmo malato la vita della “città” sono Jenny, una vicina infermiera che ha il marito arruolato in guerra (Olga Rossi) e tutte le persone che i due tirano in ballo in conversazioni che non dicono nulla a proposito di amicizie, di quotidianità o di lavoro. Sono altri o altre di cui si parla a vuoto, e spesso inascoltati, figure-batteri che entrano in circolo in qualche modo, penetrando membrane permeabili, e che comunque portano un movimento nato già morto nella relazione della coppia. Le conversazioni, se così si potessero chiamare, del tutto impropriamente, sono comunque un flusso vitale che scorre tra i due — un “flusso speculativo”, viene detto in una battuta. La coppia che si ostina a essere coppia rimane atomica e distante anche quando uno dei due, quasi sempre Christopher, ma solo perché gli uomini in genere fanno così, tenta degli avvicinamenti fisici (gli interpreti in molti momenti recitano da parti opposte del palco, anche la prossemica segue i binari morti del loro rapporto).

Clair e Christopher sono sconosciuti, due alieni che recitano una relazione. I due figli, che non si vedono mai se non nell’apparizione da spettri già detta, sono attestazioni di altre cose che hanno più a che fare con la città che con l’amore, dramma-verità non detto ma messo in rappresentazione senza sconti.
La città ha la voce di un brusio di fondo che irrompe ogni tanto — echi di chiacchiericcio, rumori del traffico, fischiettii che si udirebbero in spazi verdi. Circola anche della musica, e un canzone non natalizia, in uno strano Natale. Tutto curato anche nel sound design, di Zeno Gabaglio.

Ogni particolare, anche nelle discussioni più accese, rimane assurdamente composto. Il malessere si specchia intorno in tinta verde chirurgico. L’ambientazione evoca all’inizio un’aria da struttura medicalizzata; a metà strada arrivano delle belle poltroncine vellutate molto borghesi; verso il finale, in un momento un po’ surreale, virerà in salottino da Barbie, con uno strano sbuffo rosa a dire il vero inquietante — la scenografia dalle linee squadrate che sembra non permettere distorsioni parla e conferma.

Moglie e marito, nella loro lotta mimata, si feriscono con compostezza e rigore. Se non che, in un travestimento da pacchetto regalo, a un dato momento fa la sua comparsa un coltello vero, poi qualcosa sanguina. La frattura magmatica lavora in profondità. Ma la città resta a guardare. Questi ultimi sono aspetti solo accennati, nell’economia dello spettacolo.

Nel “lago di strazio” dei dialoghi entrano le tematiche del lavoro, della guerra, delle relazioni sociali, dei rapporti fra genitori e figli, ma governate non dall’importanza delle questioni in sé, dall’attenzione per la parola: Clair fa la traduttrice e ambisce a diventare una scrittrice. Nel racconto c’è di mezzo un diario e si parla in più parti di uno scrittore vero, dal nome da mille e una notte: Mohamed. Clair si rivelerà tale apertamente quando i confini tra realismo e finzione verranno meno. I personaggi sono destinati a scomparire, rimarranno sono le parole.

Il testo di Crimp e il suo corteo d’anime ha una portata alluvionale. Gassmann con la sua regia, nello spazio dell’atto unico è riuscito a diluirne il contenuto (che per molti aspetti ha attestazione di cittadinanza nel teatro dell’assurdo) in maniera efficace, calibrata una giusta misura.

Gli attori protagonisti hanno messo in rappresentazione marito e moglie con tratti da normal people piuttosto intonati. In particolare, La Rosa dà la dovuta trasparenza a Christopher, un brav’uomo che non si impone e una persona non ricalcitrante; perduto il lavoro perde la testa e l’identità — indosserà cappellini che lo rendono buffo; si dibatte e strepita, ma da uno che sembra non credere lui per primo di avere le convulsioni. Questo Christopher desidererebbe essere baciato da sua moglie — sarebbe più interessante per Clair baciare l’albero di Natale con le lucine, viene da pensare. È lei a tenere le redini della vita famigliare, con annessi e connessi che si sfrangiano ma pazienza; è lei, a scrivere il copione.

Alla fine, col drammaturgo, ci si domanda: potranno mai accontentarsi di fare solo questo, di dirigere i teatrini di casa, coloro (qui colei) “che si sentono girare la città dentro”?