Recensioni - Teatro

Padova: il Teatro Maddalene casa per uno studio su Le Baccanti firmato da Anagoor

In scena, gli allievi dell’Accademia del Teatro Stabile del Veneto La formazione come spazio di resistenza creativa. Al centro la tragedia immortale di Euripide. Non una vetrina, ma un’officina.

Al Teatro Maddalene di Padova, l’ultimo fine settimana di marzo ha portato in scena in tre repliche Baccanti: uno studio, progetto firmato dalla compagnia Anagoor costruito con allievi del terzo anno dell’Accademia Teatrale “Carlo Goldoni” del Teatro Stabile del Veneto. La compagnia trevisana – Leone d’Argento alla Biennale di Venezia nel 2018 – ha debuttato sulla scena venticinque anni or sono proprio con questo testo potente di Euripide, una tragedia che a distanza di oltre duemila anni riesce ancora a parlare intensamente al pubblico. La nuova versione realizzata con giovani attori è stata allestita sotto forma di studio ed è destinata a debuttare in forma compiuta tra qualche mese nei teatri. La riscrittura de Le Baccanti, curata da Simone Derai con Davide Susanetti, assistiti da Marco Menegoni, e contaminata dalle voci di Mary Oliver, Hildegard von Bingen, Joseph Beuys – figure di poesia, spiritualità e arte radicale che entrano nel corpo della tragedia come linfa vitale aprendo a nuovi sensi, evocando visioni – è l’esito di una riflessione che non cerca di attualizzare il mito, ma di farne risuonare le dissonanze nel presente. Si tratta di una scrittura scenica che è, come nello stile di Anagoor, un viaggio che coniuga danza, performance, musica e teatro, ma anche pedagogia del dubbio, dell’abbandono al non-detto. Un esempio di teatro come pratica collettiva e tribale, dove la formazione diventa creazione e dove l’estetica, sempre molto curata nei lavori della compagnia, si fonde con una profonda tensione etica. In scena: Chiara Antenucci, Laura Maria Babaian, Mosè Bächtold, Pietro Begnardi, Gaia Capelli, Daniele Capitani, Greta Nola, Luca Passera, Margherita Russo, Margherita Scotti, con Michele Tonicello. Si assiste in due ore a un rito sonoro e visivo, un sabba notturno, il mito delle donne che, invasate dal dio, lasciano le loro case per celebrare, sui monti, i lori convegni notturni, la loro una danza che si fa violenta e dionisiaca. Le parole, dette e scritte su schermi luminosi, sono dense, evocative e colte, ma è la musica, il suono, a dare corpo alla tragedia: la musica elettronica di Mauro Martinuz traduce e induce atmosfera, trance, linguaggio, e si muove tra beat ipnotici, risonanze profonde, tappeti sonori che avvolgono e a tratti stordiscono. La musica si fa ponte tra l’antico e il contemporaneo, tra il sacro e l’estasi tecnologica. È la musica a suggerire la metamorfosi. L’impianto visivo accompagna in una immersione notturna – le luci sono a cura di Eva Bruno e Derai – tra discoteca e falò. I costumi e la scena sono essenziali ma evocativi: molto belli gli effetti del cerchio-nastro neon multicolore, delle coperte termiche dorate che parlano di naufragi ma anche di età dell’oro, e stranianti le cuffiette luminose blu da silent play, che fanno pensare ad insetti d’altrove. Sempre interessante il teatro che è ciò che dovrebbe sempre essere: formazione, nel senso radicale del termine, e un’educazione alla complessità, alla fragilità, al contatto con l’altro da sé. Un teatro che è pratica magica, ambiente emozionale e sensoriale. La trance, lo stato ipnotico, concetto chiave di questa ricerca, è restituita con potenza fisica e visiva: non un espediente teatrale, ma uno stato di coscienza, un dispositivo poetico che coinvolge attori e spettatori.

Così uno studio si distingue da tanto teatro contemporaneo che si limita a replicare forme e linguaggi, trasformandosi in spazio di resistenza creativa. Non una vetrina, ma un’officina. Il grande, immutato, potere di Dioniso.