Recensioni - Teatro

Padova: nel Goldoni riletto da Malosti, due gemelli in the Dark

Andata in scena al Teatro Verdi di Padova, I due gemelli veneziani, commedia di Carlo Goldoni che in questo inizio 2022 è in tour dopo un esordio in streaming nel 2020, ha assunto una veste che evoca atmosfere e toni dickensiani, proposta in un adattamento tenebroso curato da Valter Malosti e Angela Demattè.

Diretta dallo stesso Malosti, attore e regista ora alla guida di Emilia Romagna Teatro Fondazione, che con Teatro Stabile del Veneto, Teatro Piemonte Europa, Teatro Metastasio di Prato ha prodotto lo spettacolo, la celebre commedia si snoda qui in un atto unico e vede Marco Foschi interprete dei due gemelli Tonino e Zanetto. Si tratta di due “gemelli diversi” promessi sposi invischiati nella vicenda tutta malintesi, toccate e fughe e scambi di ruolo narrata da Goldoni. Le dame oggetto dell’interesse amoroso dei due giovani uomini, una per procura, Rosaura, assoggettata al padre Dottor Balanzoni secondo i dettami settecenteschi, l’altra promessa sposa per scelta, una Beatrice molto più moderna e determinata (Anna Gamba e Irene Petris) intrecciano le loro sorti a quella della serva scaltra Colombina, come spesso avviene nei canovacci della Commedia dell’Arte (nei suoi panni, Camilla Nigro). Altri servi senza padroni sono un Arlecchino e un Pulcinella (a cui presta volto e movenze Marco Manchisi) che parlano una lingua che è un melting pot di accenti e di dialetti che va a togliere un po’ di patina veronese-veneziana, quasi per sfumare contorni e vedute fino a renderli più avvolgenti, più “italiani”. Pancrazio, messo più in luce, e Florindo, i due “cattivi” che a vari livelli tradiscono, imbrogliano, uno dei due uccide (Danilo Nigrelli e Vittorio Camarota) e con loro l’invidioso Lelio, ostacolano il compimento di quella che neanche sulla carta, o meglio nell’originale, è una storia che solo parla di coppie e d’amore: tutto da subito si inarca in una sua architettura distorta disegnata dal profitto, dall’interesse e dal malaffare: un edificio dalla parvenza ordinata ma con le fondamenta nell’acqua marcia, però in fondo e qui sta il dramma, sembra più umano e vero dei sogni sognati, degli amori cantati.

Le scene si snodano in una sorta di danza, a volte per interni più spesso di strada; gli attori entrano e escono in un flusso vitale che non si interrompe mai, neanche con la morte di uno dei protagonisti, un via vai coi suoi traffici più illeciti che leciti al quale in realtà comandano le tenebre: non dietro, ma davanti alle quinte a farla da padrone è il nero, che scende anche col buio in sala a dirigere gli eventi.

Il sipario si apre con la salma di Zanetto già stesa a terra e l’orazione funebre pronunciata da un Pulcinella che esula dal “cast” goldoniano. Il fondale (scene e luci sono state curate e ideate da Nicolas Bovey) è e rimane nero e scarno per tutta la durata dello spettacolo; dall’alto scendono in più occasioni schermi velati e scuri a scandire spazi e tempi diversi, vanno a definire confini che tracciano altri assi interpretativi possibili che si compenetrano con la parte del racconto che sa di tradizione. Nero è anche il sottofondo musicale, ricco di sonorità cupe e forti, vibrate, create ad arte da G.U.P. Alcaro. Si ride, nel corso dello spettacolo, grazie soprattutto alla maschera dello sciocco rappresentata da Zanetto — una sorta di Zanni, ovviamente — e alle battute degli attori che rievocano elementi caratteristici della Commedia dell’Arte. Ma non è la risata la cifra della rappresentazione, semmai i momenti divertenti fanno risaltare al meglio quelli che invitano a uscire per qualche attimo dal gioco e ad aprire qualche finestra sul ritratto del contemporaneo che inquadra questa commedia scritta nel “lontano” Settecento.

Nella drammaturgia, interessanti l’utilizzo dei corpi, l’attrito che si crea della scena in cui Rosaura mima la protagonista di “Io ballo da sola” e i siparietti cupi di cui sono protagoniste le maschere, con i loro idiomi sporchi che sconfinano e portano altrove.