Recensioni - Teatro

Pierre Rémond de Saint-Albine e Francesco Riccoboni, discussioni sull’attore nella Francia del settecento

Due visioni opposte fra attore “sentimentale” e attore “freddo”

Intorno al 1750, quando a Venezia il nostro Carlo Goldoni teorizzava la sua riforma drammaturgica mettendo in scena “Il Teatro Comico” , vero e proprio manifesto volto al superamento dei vecchi schemi della commedia dell’arte; a Parigi un critico di fama, Pierre de Saint-Albine, e un famoso attore di origini italiane, Francesco Riccoboni, indagano sull’arte dell’attore giungendo a conclusioni diametralmente opposte.

Pierre Rémond de Saint-Albine pubblica nel 1747 “Le Comédien”, in cui riporta la riflessione teatrale sulla verosimiglianza, sostenendo che in teatro è fondamentale creare un’illusione per lo spettatore. A differenza del teatro barocco, volto a rappresentare l’ideale, il nuovo teatro propugnato dagli illuministi doveva rappresentare la vita nel suo realismo, pur restando sempre, ben inteso, nell’ambito dello stile e della decenza.

Saint-Albine ragiona che per questo nuovo teatro serve un nuovo tipo di attore, che sappia interpretare questa verità. Intanto ne definisce le caratteristiche fisiche, che devono essere il più possibile aderenti ai personaggi da rappresentare. Inoltre sottolinea come per ottenere la verità e pertanto l’illusione che porta il pubblico a credere all’attore, lo stesso deve provare realmente l’emozione che rappresenta.

Se voi non provate personalmente le emozioni che volete rappresentare in teatro, non ce le mostrerete quali sono, ma soltanto un quadro imperfetto di esse, e l’arte vostra non potrà mai prendere il posto delle emozioni”. (Le Comédien, Parte I)

Saint-Albine era un critico e letterato, perciò i suoi consigli sono per lo più teorici che pratici, quello che gli interessa è il fine ultimo: l’illusione che il teatro deve dare allo spettatore.

Se gli attori tragici vogliono portarci l’illusione, così si devono illudere essi stessi. Devono immaginare essere vero ciò che rappresentano, (…) Questa illusione deve uscire dal vostro cuore e dal vostro cervello, e spesso un dramma poetico deve produrre lacrime reali. Allora non vedremo più attori freddi, che cercano di ripetere pose preparate attraverso toni e movimenti studiati.” (Le Comédien, Parte I)

Sembra già di scorgere il “Gefühlsmensch” (l’uomo sentimentale) preromantico di Goethe, che tanta parte avrà nella rinascita presso il pubblico dell’ottocento di tragedie "sentimentali" come Amleto.

Di tutt’altro tono e impostazione sarà invece “L’Art du Théatre”, pubblicato nel 1750 da Francesco Riccoboni, attore affermato e figlio d’arte. Egli pone l’accento sempre sulla naturalezza dell’interpretazione, ma questa naturalezza deve essere ottenuta tramite il controllo e non il sentimento.

Da mestierante del teatro, Riccoboni è assai più pragmatico, indicando con dovizia di particolari le regole pratiche dell’arte dell’attore per il movimento e la voce. Anch’egli sposa in pieno la moda per la naturalezza, ma sottolinea come l’attore ci debba arrivare attraverso una tecnica sorvegliata e non attraverso il libero sfogo dato al furore dei sentimenti.

Non sostengo che l’attore, ove affronti momenti di grande passionalità, non sia vividamente emozionato interiormente. Solo che questa emozione giunge dall’impegno di immaginarsi una passione che in realtà non prova…” (L’Art du Théatre, L’espressione)

Per Riccoboni, l’attore deve innanzitutto avere controllo, perché senza controllo, in preda ad una passione smagata, dimenticherebbe tutte le regole dello stare in palcoscenico rovinando inevitabilmente l’arte sua.

Dalla metà del settecento si delineano dunque due scuole di pensiero diametralmente opposte riguardo all’arte dell’attore, innescando una discussione che sarà presente durante tutto l’ottocento ed esploderà nelle teorie teatrali del novecento.

In realtà gli attori si sono sempre curati poco degli scritti teorici. Essi praticano il mestiere dell’attore, che, per tutto l’ottocento e fino alla prima metà del novecento, sarà, a parte rare eccezioni, un mestiere imparato a bottega, sulle assi del palco, di padre in figlio, più che sui libri e sui manuali.

Ritorniamo perciò al nostro Carlo Goldoni, che, vivendo con gli attori e scrivendo per loro, non si è mai sognato di imporre “regole”, consapevole forse che l’unica vera regola è il gradimento del pubblico.

Egli scrive “Il Teatro comico”: una commedia che parla di buon teatro e di come va fatto.

E tanto basta.

R. Malesci