Recensioni - Teatro

Politica e teatro: chi ruba il mestiere a chi?

Due mondi lontani legati da un immaginario metaforico

Apparentemente niente sembra più distante della politica dal teatro. L’una dovrebbe essere il campo del pensiero sociale, della convivenza civile, dell’organizzazione statuale o, in modo più prosaico, della buona amministrazione del bene pubblico. L’altro è il campo della rappresentazione, del racconto, del sogno, della verosimiglianza aristotelica, o, sempre prosaicamente, del mero intrattenimento. Eppure politica e teatro sono da sempre metaforicamente legati, nel senso che spesso l’una ruba il mestiere all’altro, ma non viceversa.

Per criticare un politico, lo si accusa di essere un istrione, di illudere le folle, di utilizzare arti retoriche e teatrali per convincere e per ammaliare. Già Aristofane, commediografo della Grecia classica, si scagliava contro i sofisti, che influenzavano con ragionamenti capziosi l’assemblea ateniese per i loro fini. Di contro dare ad un teatrante del politicante significa accusarlo di piegarsi alle logiche del vile profitto, di soggiacere al favore dei potenti, di perdere di vista i sublimi doveri dell’arte.

Ma in fondo cosa fa il politico se non mettersi in piazza, montare in banco, arringare la folla per convincerla a seguirlo? Oggi le piazze sono televisive o meglio virtuali, ma la loro funzione non cambia sostanzialmente.

La politica chiama a sé, racconta una visione del mondo futuro, vuole essere ascoltata. Il teatro elabora un prodotto comunicativo, racconta una storia nel presente, vuole essere capito e applaudito. Entrambi, esplicitati con passione, rigore e sincerità sono fondamentali per la società, utili, indispensabili. Il problema nasce allorché la cattiva politica ruba malamente il mestiere al teatro e, non avendo argomenti reali, diventa teatro, ma teatro vacuo, inconsistente, retorico.

Ai tempi di Shakespeare i maggiori concorrenti degli attori erano, oltre agli spettacoli con animali feroci, i predicatori puritani. Essi predicavano a voce alta un utopico mondo perfetto da realizzarsi nella libertà dal peccato, di fatto finirono per chiudere i teatri. Oggi il maggior concorrente dei teatranti resta ancora la cattiva politica, che, rappresentando se stessa, fagocita ogni palinsesto e si insinua ad utilizzare gli spazi teatrali per convegni, comizi elettorali e affini.

“Là dove la solitudine finisce, inizia il mercato; e là dove inizia il mercato, inizia anche il baccano dei grandi commedianti e il ronzare delle mosche velenose.” (F. Nietzsche – Also sprach Zarathustra)

I grandi commedianti, sostiene Nietzsche, fanno baccano, sono gente da mercato. Al mercato, come in politica, si millanta la bontà di un cibo che mangerai dopo. Il teatro invece raggruppa una comunità nel presente, propone un piccolo mondo comunicativo, crea poche regole chiare: una “costituzione” temporanea della comunicazione e della convivenza fra attori e spettatori. Quando si va a teatro si assume una decisone, ci si informa, si opera una scelta e, scegliendo, si paga un biglietto: si paga per un sogno, per una riflessione, per un intrattenimento.

I cattivi politici si rappresentano, ci intrattengono, ma non vogliono un biglietto, questo lo pagheremo inconsapevolmente all’uscita, quando non sarà più possibile chiedere un rimborso, ma neanche fischiare o protestare perché il politico “attore” sarà già fuggito verso altre platee. Non c’è diritto di recesso sulla vendita di sogni futuri.

Difatti molti politici sono attori ripetitivi, non vogliono che ti prepari, non vogliono che tu sappia le cose, le domande non sono gradite perché le risposte sono preconfezionate su domande studiate per la massa. Il biglietto non c’è ma è differito nel voto, il sogno è raccontato ma non vissuto: ascoltare un politico mediocre è come ascoltare il racconto di uno spettacolo che non vedremo mai.

Al contrario, non c’è soldo speso meglio che quello speso per un paio d’ore a teatro, un paio d’ore in cui ogni pensiero negativo, compreso quello della morte, è bandito; un paio d’ore in cui il demone del tempo, che rosicchia da dentro la nostra esistenza, viene dimenticato. Un paio d’ore di felicità.

R. Malesci