Recensioni - Teatro

Thiene, l’Anna Karenina di Luca De Fusco, donna in rosso e nero

Galatea Renzi porta in scena e dà voce all’eroina tragica di Tolstoj

La 43^ stagione teatrale di Thiene per il terzo appuntamento in cartellone ha portato in scena uno dei massimi capolavori della letteratura russa e oltre scritto da Lev Tolstoj, Anna Karenina, in una trasposizione per la scena firmata dal regista napoletano Luca De Fusco con il drammaturgo Gianni Garrera, che ne ha creato l’adattamento. La produzione del Teatro Stabile di Catania/Teatro Biondo di Palermo ha debuttato lo scorso novembre in Sicilia ed è approdata al Comunale thienese in tre serate, dal 5 al 7 dicembre. Una trasposizione per il palcoscenico creata ad arte da De Fusco, che ha utilizzato il suo canone a impronta, contrassegnato da una “grammatica visivo-musicale” e ha accorpato ad alcune scene cruciali del romanzo un montaggio cinematografico, a cura di Alessandro Papa. De Fusco per dieci anni è stato direttore del Teatro Stabile del Veneto, poi direttore del Teatro Stabile di Napoli; ha lavorato per Radio3 e come regista lirico tra gli altri per il San Carlo, La Fenice, il Massimo di Palermo, l’Arena di Verona.

Per interpretare la protagonista, una figura letteraria che spesso è stata associata a Madame Bovary di Flaubert, due grandi lettrici di romanzi, ma che ha dietro le belle spalle l’ombra di Puškin, e che ha generato tante “figlie” d’arte, il regista ha scelto Galatea Renzi, attrice romana vincitrice del premio “Eleonora Duse” nel 2012; con lei, Giacinto Palmarini, a interpretare il conte Vronskij; Paolo Serra ha indossato i panni scomodi del marito Karenin; Stefano Santospago è Oblonskij, il fratello fedifrago di Anna sposato con Dolly (Debora Bernardi); Francesco Biscione ha dato voce a Levin (alter ego di Tolstoj nel romanzo) gentiluomo di campagna innamorato della giovane e fresca Kitty, sorella minore di Dolly (Mersila Sokoli); Giovanna Mangiù è Betsy, cugina di Vronskij, e Irene Tetto interpreta la contessa Lidjia. Naturalmente nel romanzo tutti i personaggi hanno titoli nobiliari dal sapore russo imperialista, ma la storia raccontata, come capita nei grandi capolavori letterari, ha una soglia di lettura che travalica spazio e tempo e la sostituzione da ambientazione aristocratica a salotto borghese a soggiorno di casa è immediata. Tolto il contesto, è l’opera di scavo nel personaggio che rende contemporanea la vicenda, insieme alle tematiche sociali che invitano a riflettere che mette in rappresentazione (per tutto, basti ricordare che fino al 1960 in Italia una moglie che decideva di separarsi andando via da casa doveva rinunciare anche ai figli, perdeva il diritto alla maternità).

«Non ho voluto nascondere l’origine letteraria del testo», ha dichiarato il regista, infatti a sfilare davanti agli occhi del pubblico è “l’intero” romanzo, grazie alla scelta drammaturgica di affidare le parti narrative e i commenti dell’autore agli stessi attori, che a tratti quasi in coro orientano, fanno osservazioni, riannodano i fili rossi tra i tanti appesi da Tolstoj nella trama. La scenografia, a cura di Marta Crisolimi Malatesta — ha creato anche i bei costumi ottocenteschi — gioca sui toni del nero e dell’amaranto, un rosso doloroso. Gli attori sul palco si muovono, appaiono e scompaiono su due ripiani, una sorta di soppalco consente di mimare più piani narrativi che si dispongono anche visivamente alternati, disegnando geometrie che evocano lo stile di Ronconi. Davanti alla scena resta un sottile velo nero, un tono lugubre, dove saranno proiettati tra gli altri frasi che si ricordano dalla lettura, diventate iconiche (e anche cult), e i video alcuni momenti-chiave: l’incontro magico di Anna e Aleksej, il ballo (una delle scene più belle della letteratura di tutti i tempi), un momento passionale, la tormenta di neve, il monologo finale, disperato, di Anna. Naturalmente dietro, come il destino, incombe enorme il volto di un treno.

Venendo al gioco delle coppie, perché ve ne sono molte che interagiscono nel romanzo, come in una torre di scatole cinesi, Galatea Renzi dà vita con passione a una donna che ama all’iperbole e soffre fino a morirne a causa dell’ipocrisia, del rimprovero sociale, dei colpi avversi del destino. Il giovane Aleksej Vronskij interpretato da Giacinto Palmarini assume quel tratto di “normalità” che le lettrici naturalmente non gli attribuiscono, sorrette anche da diversa cinematografia, ma che il personaggio in parte chiama, nei risvolti che si dipanano nel corso della relazione con Anna. Paolo Serra è un Karenin ipocrita, burocrate anche nella vita al punto giusto. Spicca l’interpretazione di Stefano Santospago, perché il suo “Stiva” acquista spessore in dialogo con la contemporaneità.

Figurativi i giochi di luce, che creano quadri nei quadri tra i capitoli (ricordiamo che il romanzo fu “seriale”, uscì a puntate); molto interessanti le musiche, queste ultime di Ran Bagno, compositore israeliano esperto anche nella realizzazione di colonne musicali per il cinema.

Lo spettacolo è suddiviso in due parti, con un intervallo dura all’incirca due ore e quaranta minuti. Come suddetto, il romanzo sfila davanti agli occhi e si ri-legge, si ri-conosce, anche con la sua temperie. L’omaggio a Tolstoj è curato e riuscito.