
Proposta di grande impegno come primo titolo della rassegna “Il grande teatro”
Tre mostri sacri del teatro italiano si cimentano con un testo interessante e difficile del drammaturgo inglese Michael Frayn. Si tratta di Copenhagen, testo del 1988 che mette in scena l’incontro avvenuto durante la seconda guerra mondiale fra Niels Bohr e Werner Karl Heisenberg, due fra i maggiori fisici del tempo.
Lo spettacolo è prodotto dalla compagnia Umberto Orsini e dal Teatro di Roma con la regia di Mauro Avogadro, costumi di Gabriele Mayer, scene di Giacomo Andrico. Umberto orsini interpreta Niels Bohr, Giuliana Lojodice sua moglie Margerethe, mentre Massimo Popolizio veste i panni di Werner Karl Heisenberger.
La pièce è estremamente concettuale. Affronta infatti, in un dialogo serrato fra i tre, uno dei dilemmi principali del novecento, cioè l’etica legata alle scoperte scientifiche. Nel caso specifico il dilemma verte attorno allo sviluppo della bomba atomica e al limite morale di uno scienziato di fronte ad una scoperta talmente distruttiva. Non a caso Heisenberg lavorava per i Tedeschi, mentre Bohr finirà per aiutare lo sviluppo della bomba per gli americani. La trama dialogica si sviluppa affrontando temi etici e filosofici accanto ad uno spaccato reale di vita di due grandi fisici, le loro invidie, i loro studi, le famiglie, la competizione per le cattedre.
È un lavoro senza storia, perché tutto è ormai già successo, il pubblico è consapevole degli sviluppi, sa che la guerra sarà vinta dagli americani, sa delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Ma proprio qui sta il sale della vicenda, in uno sguardo sfalsato dal tempo, in cui il pubblico vede dei personaggi ragionare su scelte morali ed etiche che, con il senno di poi, sono date per acquisite, definite, accadute. Non per questo il ragionamento dei tre fisici è meno importante, poiché ci illumina sui limiti morali che dovrebbero guidare ciascuno di noi, su un’etica del ragionamento che dovrebbe tracciare il sentiero di qualsiasi scelta umana. Sull’importanza della vita in un secolo di morte come il novecento.
Le discussioni filosofiche dei nostri fisici sembrano quasi paradossali se inserite in un contesto storico, il 1941, in cui la guerra sta mietendo milioni di morti. La pièce vuole illuminarci sull’importanza dell’etica del limite e in questo senso è antica come il mondo e pertanto modernissima. L’etica del limite che al tempo dei nostri fisici mancava ai dittatori tedeschi e Italiani che scatenarono la barbarie in Europa e che oggi manca a molti in svariati campi e su cui sarebbe utile una riflessione calma e pacata, “etica” appunto, priva di urla e strepiti.
Come calma e pacata è la messa in scena di Mauro Avogadro. Una regia rigorosa, precisa, illuminante, che lascia parlare il testo senza mai prevaricarlo, che ci porta ai contenuti senza farsi vedere, senza imporsi con inutili orpelli. Il tutto poi si assomma e si realizza nella prova maiuscola di tre grandi attori che non hanno bisogno di presentazioni. Gettano nella recitazione tutta la loro esperienza (220 anni in tre), i lunghi anni di teatro che permettono loro di tenere un testo di parola per quasi due ore senza una sbavatura, con presenza e consapevolezza e senza mai appesantire o trattare le illuminanti riflessioni di Frayn come inappropriati sermoni. Una grande prova di teatro che si mantiene inalterata dopo 18 anni dalla prima assoluta, sempre con Umberto Orsini al Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia nel 1999. Uno spettacolo che dovrebbe diventare obbligatoriamente di repertorio ed essere riproposto annualmente nei teatri.
Ottimo successo a fine serata.
Raffaello Malesci (07/11/18)