Recensioni - Teatro

Un Ibsen introspettivo ancorato alla parola

Convince soprattutto per la recitazione La casa dei Rosmer firmata da Bucci e Sgrosso per il CTB

16 anni dopo Hedda Gabler Le belle bandiere tornano al teatro di Henrik Ibsen, sempre in una produzione firmata Centro Teatrale Bresciano -in collaborazione con il Teatro Metastasio di Prato ed Emilia Romagna Teatro- affrontando uno dei testi più introspettivi del drammaturgo norvegese: La casa dei Rosmer (in originale Rosmersholm).

Johannes, ultimo discendente dei Rosmer, famiglia tanto autorevole quanto reazionaria, legata all’aristocrazia ed alle antiche tradizioni, ad un anno dal suicidio della moglie Beate sta cercando di rifarsi una vita con l’ex governante Rebecca che è rimasta a vivere con lui e con la quale ha instaurato una relazione di tipo platonico. Da tempo le sue simpatie si sono spostate verso gli ideali rivoluzionari, in netto contrasto con quella che era sempre stata la posizione della sua famiglia e con quello che la comunità si aspetterebbe da lui: primo fra tutti suo cognato, il rettore Kroll, che lo rimprovera per queste nuove idee radicali che attribuisce all’influenza esercitata su di lui da Rebecca. Ma, come in un giallo, si scopre che non è questa la maggiore responsabilità dell’amica-governante, quanto quella di essere stata l’istigatrice del suicidio di Beate a causa della sua infatuazione per Rosmer.
Oppresso dal senso di colpa e consapevole che, per quanto accaduto, tra di loro non potrà mai esserci niente, Johannes dapprima chiede a Rebecca di suicidarsi nello stesso modo in cui è morta la moglie e poi la raggiunge per unirsi a lei anche nel gesto estremo.
Un dramma dalla forte caratura psicanalitica, in cui sulla scena accade poco o nulla, mentre tutto in realtà si svolge nelle coscienze di Johannes e Rebecca, personaggi dalla psicologia complessa e sfaccettata, incapaci di relazionarsi con il mondo circostante, tuttavia talmente intrisi della miseria umana da essere costretti al suicidio.

Un testo rigorosamente di parola, non facile per il pubblico attuale, che l’impostazione registica di Elena Bucci, con la collaborazione di Marco Sgrosso, risolve solo in parte. Le scene di Nomadea estremamente stilizzate, prive di arredi, scolpite dalle bellissime luci cangianti di Daria Grispino, rimandano più ad uno spazio mentale che ad uno spazio reale, in cui gli interpreti sono più voci che personaggi in carne ed ossa. Gli attori infatti entrano tutti in scena fin dall’inizio e restano seduti ai margini, per alzarsi quando tocca a loro e partecipare all’azione, senza particolari spunti che vadano oltre alla declamazione del testo. A dare un po’ di tridimensionalità aiuta il commento sonoro senza soluzione di continuità curato da Raffaele Bassetti che aiuta ad immergersi in un’atmosfera cupa ed opprimente qual è quella della casa. Una regia che quindi non riesce a far prendere il volo ad una drammaturgia statica, da cui a tratti fa capolino una certa verbosità, nonostante la recitazione sia di eccellente livello.

Marco Sgrosso è uno Johannes estremamente articolato nel suo dramma interiore, misurato nelle intenzioni e nella gestualità nonostante dalla sua interpretazione traspaia tutta la complessità delle emozioni e delle contraddizioni che caratterizzano il personaggio. Al suo fianco Elena Bucci è una Rebecca ambigua, che lascia affiorare un po’ per volta la sua personalità, pur mantenendo sempre una sorta di sincerità, quella sincerità che la porterà al suicidio. Emanuele Carucci Viterbi dà voce e corpo ad un rettore Kroll incisivo ed autorevole; Valerio Pietrovita è un Mortensgaard appassionato ed idealista mentre Francesco Pennacchia si disimpegna egregiamente nel doppio ruolo di Ulrik Brendel e Madama Helset.
Calorosa al termine la risposta del pubblico del Teatro Sociale di Brescia che ha tributato applausi convinti a tutti gli interpreti.