Recensioni - Teatro

Una lezione di teatro a Verona con Lo Zoo di Vetro

Pier Luigi Pizzi azzecca una regia e messa in scena perfetta e rigorosa del lavoro di Tennessee Williams

Prosegue la stagione di prosa al Teatro Nuovo di Verona, con un grande classico del novecento americano: “Lo Zoo di Vetro” di Tennessee Williams. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto e da Best Live, ha debuttato lo scorso anno a Venezia.

Pier Luigi Pizzi, che ne firma regia, scene e costumi, si conferma dall’alto dei suoi oltre novant’anni un grande uomo di teatro a trecentosessanta gradi. Ne sono passati di decenni dall’epoca della Compagnia dei Giovani, con cui Pizzi inizia a collaborare per il teatro, ma il maestro torna ad impartire con il dramma di Tennessee Williams una grande lezione di teatro.

Lezione fatta di rigore e buon gusto, attenzione al testo e agli attori; scavo psicologico e naturalismo scenico perfetto; precisione e semplicità. Sembra poco, ma nel teatro italiano di questi anni, zeppo di spettacoli affrettati e sciatti in cui la regia viene confusa con l’improvvisazione, è tantissimo.

Intanto l’ambientazione di casa Wingfield, che si mostra a prima vista come la classica scena di interno borghese, per rivelarsi lentamente, nel corso dello spettacolo, come la proiezione ossessiva di una ricerca di sicurezza e rispettabilità. La maniacalità dell’ambiente si rivela piano piano, l’ordine esasperato che promana da tutti gli oggetti uniformati ostinatamente sui toni del marrone: la credenza perfetta e ordinata, il mappamondo scolastico che ha lo stesso colore dell’armadio, l’abat-jour tono su tono.

Di contro il disordine portato dal figlio Tom, che dorme su un divano letto ostinatamente aperto e chiuso con malcelata irritazione, e che sembra un lupo in gabbia nell’asettico ambiente creato dalla madre.

Poi una grande lezione di preparazione degli attori: efficaci, semplici, calibrati, naturali. Il naturalismo teatrale dimostrato nella sua perfezione, con movimenti studiati ed estetici che divengono credibili e veri. I dialoghi sviscerati nei sottotesti e ridati al pubblico con la naturalezza della quotidianità, che poi subitaneamente esplode nel dramma. Il ritmo giusto, le pause calibrate e dense di significato, le accelerazioni di dolore e frustrazione che all’improvviso travolgono la calma dell’idillio domestico.

Al resto pensa il testo, lasciato nella sua integrità e con la bella traduzione di Gerardo Guerrieri. Il sottile dramma psicologico della famiglia Wingfield, in particolare della madre Amanda abbandonata dal marito con due figli, resta un capolavoro drammaturgico. Una trama fatta di niente, che può sembrare vuota, ma da cui emergono terribili le solitudini dei personaggi, il disgregarsi del quadro familiare, la tragedia di un contesto sociale che in realtà è fatto di tradimenti e abbandoni.

Bravissimi i quattro interpreti. Ad iniziare dall’Amanda credibile, volitiva e disperata di Mariangela d’Abbraccio, che azzecca intonazioni e tempi perfetti, facendo intravedere la sua frustrazione costante fino alla terribile esplosione finale. Al suo fianco Gabriele Anagni è un Tom perfetto. L’attore convince sia vocalmente che scenicamente, rappresentando in maniera calibrata ed efficace le frustrazioni di un giovane in procinto di lasciare una casa che per lui è diventata una prigione.

Elisabetta Mirra è una Laura Wingfiled calibratissima, che regala un’interpretazione ieratica e dolente con una magistrale caratterizzazione fisica. Jim O’Connor è il bravo Pavel Zelinsky, che rende in modo credibile il personaggio del sognatore cinico e ingenuo.

Teatro Nuovo non pienissimo, ma applausi prolungati e convinti nel finale, con molte chiamate per gli interpreti.

Raffaello Malesci (Venerdì 17 Gennaio 2024)