Recensioni - Teatro

Venezia: Spettri di Ibsen come una tragedia greca

Asciutta riduzione del testo curata da Fausto Paravidino. Rigorosa regia del lituano Rimas Tuminas. Protagonista Andrea Jonasson.

Debutta al Teatro Goldoni di Venezia la nuova produzione di Spettri del Teatro stabile del Veneto, con, nella parte di Helene Alving, una delle attrici iconiche del panorama teatrale italiano degli ultimi trent’anni: Andrea Jonasson.

Il ritorno sulle scene italiane di Andrea Jonasson non è l’unico motivo di interesse di questa produzione, che assomma la rigorosa regia di Rimas Tuminas e l’interessante riduzione di Fausto Paravidino.

Paravidino scarnifica il testo di Ibsen, riducendolo ad un atto unico di circa un’ora e trenta minuti. Tratta la materia come fosse una tragedia greca scegliendo di eludere alcune parti per far risaltare un fato inesorabile che aleggia sul destino dei personaggi. Sappiamo che gli spettri del titolo sono le colpe del padre, il Capitano Alving, che lascia nella famiglia una scia di tragedie personali e psichiche sia nella madre che nel figlio Osvald. Nel testo di Ibsen tutti sanno, o sospettano la verità: la piccola Regine è in realtà figlia di Alving e perciò sorella di Osvald; ma la cosa viene colpevolmente taciuta, per quieto vivere, per ossequiare la morale borghese che vuole seppellire il marcio entro le spesse mura domestiche. Paravidino sceglie invece di dare meno importanza alle allusioni presenti nel testo ibseniano, i rimandi a questo fatto vengono elusi. Ne consegue che Regine diviene perciò molto più ingenua, meno prosaica e attaccata al denaro; il finto padre di Regine, Engstrand, più neutro, meno consapevole.

Il dettato ibseniano viene caricato di sottintesi, i personaggi diventano ignari, in balia di un destino che solo inconsapevolmente hanno contribuito a smuovere, proprio come nell’Edipo Re di Sofocle. Il tutto si scioglie solamente nel grande monologo finale di Helene, in una agnizione più da fato rivelato che da presa di consapevolezza della realtà, cosa invece già sottilmente presente nel testo originale ibseniano. Una scarnificazione tragica insomma, in cui i personaggi diventano quasi vittima del fato più che degli eventi creati o complicemente taciuti da loro stessi.

Paravidino inoltre, pur lasciando tutto il dialogo relativo all’assicurazione dell’asilo costruito in memoria del defunto capitano Alving, sceglie di togliere completamente il finale del secondo atto in cui l’asilo brucia per colpa del reverendo Manders. Ne deriva un forte ridimensionamento del ruolo di Engstrand, che rimane poco più che una comparsa innocua. Parimenti sceglie un taglio moderno nel dialogo riguardo alla famiglia fra Osvald e Manders del primo atto, lasciando sottintendere anche un risvolto contemporaneo con allusioni alle famiglie omogenitoriali, cosa ovviamente non presente in Ibsen.

Una lettura interessante quella di Paravidino che cambia nella sostanza il dettato Ibseniano, stagliando i personaggi in una grandezza mitica che forse nel testo originale non hanno, intrisi come sono in una morale spicciola, gretta, da piccola borghesia mercantile.

Rimas Tuminas segue coerentemente questo taglio, impostando una regia rigorosa e scarna, con una recitazione semplice, diretta, mai eccessiva, mai esteriormente “tragica”. La scena di Adomas Jacovskis è pietrificata nell’oscurità: qualche colonna, pochi rimandi all’arredamento ottocentesco bastano a dare una parvenza di dimora. Al centro sullo sfondo un grande specchio sospeso, davanti al quale Osvald e Regine si ritrovano per un balletto di iconica semplicità, in cui senza una parola sembrano riconoscersi e capirsi, forse amarsi. Oppure vedono riflessi in loro stessi i propri spettri del passato nello specchio. Tuminas sceglie di accompagnare sempre lo spettacolo con lievi musiche di sottofondo, quasi il tutto fosse una sonata di fantasmi, un altrove musicale.

Protagonista e mattatrice indiscussa la grande Andrea Jonasson, che cesella con naturalezza le parole e arriva in platea senza sforzo, diretta, chiara, illuminante. La Jonasson fa pochissimo e comunica tantissimo, ci regala il magnetismo della sua grande esperienza, l’asciuttezza di un teatro nordico che sembra in lei naturale, umano; in una parola vero.

Al suo fianco un cast di ottimi attori a partire dal convincente Osvald di Gianluca Merolli, anche lui misurato e sorvegliato, con pochi eccessi e una scena finale assolutamente perfetta. Il pastore Manders era Fabio Sartor, che da una lettura ironica del personaggio: togliendo ogni lato perfido ci consegna la semplicità ingenua di un male quasi banale, forse inconsapevole. Eleonora Panizzo e Giancarlo Previati completano perfettamente il cast.

Applausi convinti nel finale e grande festa per Andrea Jonasson.

Raffaello Malesci (5 Febbraio 2022)