
Il festival internazionale diretto da ricci/forte ha assegnato al collettivo anglo-tedesco Gob Squad Theatre, presente con Creation e Elephants in Rooms, l’importante riconoscimento
È in corso a Venezia da sabato 15 giugno (fino a fine mese) la 52^ edizione della Biennale dedicata al Teatro. Il festival internazionale diretto da Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/forte), per la quarta volta alla conduzione, è stato battezzato Niger et Albus e animerà il capoluogo lagunare e Forte Marghera con 130 artisti, 55 appuntamenti, 16 prime, di cui 7 produzioni e coproduzioni della Biennale.
Ad accogliere il pubblico nelle prime giornate gli spettacoli dei vincitori 2024, premiati in una cerimonia pubblica a Ca’ Giustinian: il Leone d’oro alla carriera è andato a Back to Back Theatre, pluripremiata formazione australiana che trova nella disabilità uno strumento di indagine artistica; vincitore del Leone d’argento è stato il collettivo anglo-tedesco Gob Squad Theatre, presente con due opere dai riferimenti imponenti: Creation (Picture for Dorian) e l’installazione Elephants in Rooms.
Con altre realtà, si tratta di coloro che sono valutati dagli esperti del settore come game-changer della scena contemporanea, compagnie considerate espressione “di nuove forme della teatralità e di un nuovo modo di essere spettatori”.
Visto al Teatro Piccolo Arsenale nella replica di domenica 16 giugno, Creation (Picture for Dorian) è l’opera ispirata al celebre romanzo di Oscar Wilde che ha come protagonista Dorian Gray (diciamo così, semplificando) messa in scena dal collettivo britannico-berlinese insignito in laguna del Leone d’argento. Si parla di una realtà artistica nata nel 1994, sette i membri fondatori, che da anni gira il mondo e a cui si è affiancato per l’occasione un gruppo eterogeneo di artisti locali, di una generazione più giovane e una generazione più vecchia, persone che hanno attualmente o hanno avuto in passato tra le loro grandi aspirazioni quella di calcare i palcoscenici. Nel cast: Berit Stumpf, Johanna Freiburg, Bastian Trost, Sean Patten e gli artisti di casa Alessandro Bressanello, Guido Laurjni, Manuel Nakhil, Margherita Piantini, Pierandrea Rosato, Yoko Yamada (nippo-bresciana).
Nato nel 2018, la produzione firmata Gob Squad e Teatro Hebbel am Ufer di Berlino, lo spettacolo in ogni Paese dove viene rappresentato cambia il gruppo di attori “ospiti”, quindi varia la narrazione seguendo l’ottica della Live Art (o Life Art).
Il nome chiamato in causa, quello del geniale uomo d’arte irlandese massimo esponente del decadentismo e dell’estetismo — che fece della sua vita stessa un capolavoro — e il riferimento altisonante al suo tenebroso e fulgido (Niger et Albus) personaggio ammantano di aspettative la visione di Creation.
A queste, vanno aggiunte quelle derivanti dalla motivazione del premio ricevuto dalla compagnia: «… per essere tra i più profondi, poetici, politici, innovativi artisti del linguaggio teatrale nel mondo».
La performance offre allo spettatore, considerato protagonista anch’esso in una sorta di triangolazione continua con artista e opera (triangolazione contrassegnata da cartellini con le lettere A, B, C, sul palco) una riflessione per quadri sul trascorrere del tempo, sul valore della bellezza e sulla sua caducità — tolta di mezzo ogni idea di patto col diavolo — sul rapporto tra arte e natura (è la natura che copia l’arte, per Wilde); infine sul rapporto tra gli uomini e l’arte stessa.
Nel quadro iniziale, un esordio-annuncio, un’attrice del collettivo è impegnata a ritrarre una spettatrice, alla quale consegnerà il disegno spiegandole perché l’ha scelta tra il pubblico. La prima figurazione davvero importante nell’economia dello spettacolo entra in scena illustrata lungamente a parole, ed è una citazione presa dal romanzo resa poesia. Si tratta di un bellissimo mazzo di fiori che aspira alla perfezione, la sua artefice impegnata a realizzare equilibri da ikebana. Il prodotto di natura e arte insieme è posto sotto a una lampada che irradia calore, un sole cattivo che farà invecchiare e morire tutti i fiori nel tempo di durata dello spettacolo. Uscirà spesso l’inquadratura proiettata sul fondale. Il dramma del tutto umano del passaggio del tempo su mente e corpo, qui incarnato nel verde, sta tutto lì.
Tante cornici dorate “inquadreranno” poi fisicamente, di volta in volta, creazioni e figure cangianti, molte coronate di fiori. Le inquadrature proseguiranno sul grande schermo collocato sullo sfondo, a opera di riprese effettuate in diretta sul palco talvolta espresse in fermo immagine, talvolta creanti sfilate in movimento. Interessanti e raffinati sound e video design, a cura rispettivamente di Sebastian Bark e Miles Chalcraft. I singoli personaggi vi si presentano con i loro talenti e le loro peculiarità, artistiche-professionali e anagrafico-personali, inscenando un dialogo con il pubblico che in realtà ha molto il carattere dei soliloqui da canali social. Non a caso, il tema del selfie, o meglio, delle facce da selfie, è ripreso più volte e con vari linguaggi dagli attori, spesso parlanti rivolti a specchi, o danzanti con pannelli specchianti.
«L’arte è brutta quando l’artista è troppo presente», viene detto, e poi più tardi «Il mondo è tuo per una stagione»; «la donna di mezza età è invisibile», dirà un personaggio — a fine spettacolo l’attrice che l’ha dichiarato si spoglierà nuda e tra le altre cose racconterà di quanto e come si è depilata. Si capisce che il gesto è senza mire a un apprezzamento estetico, al centro c’è la felicità di tornare finalmente ad avere ogni sguardo presente su di sé. L’operazione è nostalgica e tinta di rosa: questo è un dramma meramente femminile, pare. Il suo “correlativo oggettivo”, potesse esserlo una persona, lo incarna Bressanello, attore italiano dai capelli bianchi che ha avuto una lunga carriera, ha recitato con i grandi e poi qui, a comando, agli ordini di una sorta di dio-regista demiurgo del collettivo vestito in nero e col passamontagna, inscena il suo ultimo, commovente e applauditissimo, inchino al pubblico.
I giovani in formazione, creature di cera, come sembrano dire anche i costumi (che più avanti diventeranno ricoperti di muscoli gonfi) in una scena sono messi in contatto, in una sorta di falò, con “dèi” che comandano il presente e il futuro a cui confidano-affidano ambizioni sull’avvenire (se mai avverrà) nel mondo delle arti. Ci sono dinamiche di potere accese da bellezza e giovinezza destinate a durare un dato tempo, poi c’è l’anima, si dice in più parti nello spettacolo.
“Si dice” è una parola-chiave: tanta parte della drammaturgia curata da Christina Runge, nonostante la cifra dello spettacolo siano le immagini, è affidata a microracconti, testimonianze, spiegazioni, interazioni dialoganti, il tutto composto a più voci in tono da docufilm: un teatral-reportage. A corredo, “i quadri viventi” rappresentati, anche in composizioni articolate quasi da ikebana nel finale, a restituire l’idea del mazzo di fiori questa volta composto da corpi un po’ A e un po’ B in boccio, in fiore e sfioriti: ciascuno che ambisce, illuminato dall’arte, a catturare sguardi che diventino artefici, loro il potere di dare vita (senza i quali A e B, artista e opera, sembra non abbiano abbastanza senso d’esistere).
L’idea di creazione è riportata nello spettacolo a grandezza d’uomo. Ci sono alcuni temi scelti che attraversano il Dorian Gray e l’opera di Wilde, indubbiamente, ricollocati in questa forma nella quotidianità, anche in aspetti lavorativi. Spariti il diavolo e le sue corna, il wilde è ricondotto ai pericoli dell’insuccesso professionale o al passaggio in ombra per sudditi dell’anagrafe, artisti ma senza grandiosità. Qualche demone del tutto domestico c’è, di quelli smorti dei nostri tempi: nessun ghigno riflesso negli specchi e nessun Lord Henry, per chi si aspettasse di intravvederlo se non sul palco tra il pubblico con la lettera C appesa — qualora l’avesse mai permesso.
Nel teatral-reportage di Gob Squad Theatre, il ritratto di un’epoca schermata da schermi, spopolata di miti, che non conosce eroi, né neri né bianchi, e che avanza smarrita alla cieca, inseguendo il desiderio di occhi addosso.