Recensioni - Teatro

Verona: Paolo Valerio dirige Elena Ghiaurov in Jezabel, e racconta la maledizione di un’epoca da sogno

“Jezabel”, spettacolo prodotto dal Teatro Nuovo di Verona in concerto con il Teatro Stabile di Napoli in tournée dal 31 gennaio, è approdato sul palco di casa in sei repliche dal 18 al 23 febbraio.

Tratto dall’omonimo romanzo scritto da Irène Némirosky nel 1936, il libro è stato pubblicato tradotto in Italia più di settant’anni dopo, l’adattamento drammaturgico firmato da Francesco Niccolini, lo spettacolo diretto da Paolo Valerio racconta una tragedia dai contorni classici, il modello che guarda a canoni antichi ma ricco di modernità.

La protagonista è una donna di origine sudamericana biondissima e bellissima, Gladys Eysernach (il cognome acquisito dal primo ricco matrimonio) nata a fine Ottocento in data imprecisata non a caso, una farfalla esotica non proprio rara che ama vagabondare tra cene, balli e relazioni amorose e che vive come un dramma il passare del tempo: ha con lo specchio un rapporto che fa venire i mente i ritratti di Narciso, o quello maledetto di Dorian Gray.

Elena Ghiaurov è l’interprete sul palco di Gladys-Jezabel — il titolo dell'opera si rifà all'ultima tragedia di Racine citata dal ragazzo che Gladys uccide: creduto dagli inquirenti l’ultimo dei suoi amanti, Bernard Martin (interpretato da Jozef Gjura) muore per un colpo di pistola sparato da una Gladys del tutto atterrita, e lo spettacolo inizia come il libro dalla celebrazione del processo che mette in piazza in modo impietoso l’intera vita della donna imputata, alla fine rea confessa. Presidente della giuria è Roberto Petruzzelli, che sarà impegnato anche nel ruolo di un ex amante di Gladys, Sir Mark. Tutti gli interpreti, tranne Ghiaurov-Jezabel, ricoprono almeno due ruoli: Leonardo De Colle è il conte Aldo Monti e il cugino di Gladys Claude Beauchamp; Francesca Botti interpreta la cameriera Flora Adèle Larivière e la levatrice/venditrice di prodotti di bellezza Carmen Gonzalès; Sara Drago veste i panni delle amiche-nemiche Jeannine Percier e Lily Ferrer e poi della cugina Thérèse Beauchamp; anche per Giulia Odetto un doppio ruolo — tra l’altro interpreta in scena la figlia triste di Gladys Marie-Thérèse, presentata con un nudo integrale; il già citato Jozef Gjura interpreta anche Constantin Slotis (uno studente amico di Martin) e lo sfortunato soldato Olivier Beauchamp.

Sul palco, dopo la scena del tribunale scendono e si alternano elementi d’arredamento calati con funi dall’alto, a disegnare una scenografia piena di eleganza sospesa e danzante, a tratti velata, a evocare l’atmosfera del ballo che pervade tutto il romanzo, e che è uno dei temi forti di Irène Némirosky.

Le musiche belle di Antonio Di Pofi, suonate al piano da Sabrina Reale, provengono da dietro il telone velato e accompagnano il susseguirsi degli eventi rappresentati, che ripercorrono le vicende dolenti narrate nel romanzo. La trama si muove su un territorio che si potrebbe avere la tentazione di affratellare a quelli esplorati da Colette nei suoi Chéri, ma la distanza è troppo ampia, originaria, viene da dire. Jezabel non è una dame sans soucis, come vorrebbe, non lo è mai stata, è una Signora Barbablù, per tanti aspetti.

Elena Ghiaurov interpreta con decisione modulando i giusti chiaroscuri lo smarrimento che racconta il travaglio di un’epoca, la cosiddetta fin de siècle, in parallelo con la caduta all’inferno a cui è condannato il sogno di vita di Jezabel. Il rapporto malato con una bellezza d’eccezione che le è stata concessa in dono, a cui sacrifica ogni cosa, insieme al mito dell’eterna giovinezza visto come passepartout per il potere e la conquista nei rapporti umani, conducono sui binari della follia questa donna che diventa Medea suo malgrado perché non riesce a smettere di ballare una danza che diventa macabra, terrorizzata dall’incedere di segni dell’età. Vista quasi cento anni dopo, questa paura esorcizzata a volte con risultati da esorcismo dalla chirurgia estetica non sembra aggredire con meno virulenza tante cinquantenni dai tratti anche meno esemplari di Gladys. Nel frattempo gli uomini innamorati e poi disamorati di lei, mai dannati come lei, recitano la loro parte naturale: man mano che gli anni passano, cercano bellezza e gioventù che li rispecchi in altre donne più giovani. Alle loro coetanee non è mai dato di poter fare altrettanto senza almeno qualche implicazione di tipo materno-figliale che inquini ogni erotismo ricercato o presunte norme sociali di buona condotta. Il rapporto madre-figlia rappresentato nella pièce segue visioni piene di inquietudine già ben delineate nell’opera letteraria della Némirosky: Marie-Thérèse è bella, giovane, fa la sua arringa senza veli da una vasca da bagno che è icona del sacrificio e Giulia Odetto le dà un’aria da Giulietta che fa precorrere la catena di tragedie che seguiranno.

Sui fondali dietro agli attori, a cura di Antonio Panzuto, risaltano bellissimi viali e boschi innevati che fanno da sfondo al gelo dell’anima che avvelena la donna e il suo tempo; tutto si muove in un paesaggio-epoca che sa, se fosse possibile, di ostalgia.

Lunghi applausi, dal pubblico veronese.