Recensioni - Teatro

Vicenza: La classe di Vincenzo Manna guarda ai moderni “senza famiglia”

Al Teatro Comunale di Vicenza, in unica data sabato 15 febbraio è andato in scena “La classe”, spettacolo nato da un progetto di Vincenzo Manna, per la regia di Giuseppe Marini.

Si tratta di una produzione realizzata nel 2018 a cura di Accademia Perduta Romagna Teatri, Goldenart e Società per Attori che guarda ai temi del disagio giovanile, della violenza crescente e delle forti disuguaglianze sociali che abitano le nostre città. Temi forti e attuali che si manifestano per primo nelle case, sulle strade e nelle aule scolastiche sui quali lo spettacolo, preceduto da tanto cinema, si propone di accendere i riflettori anche attraverso il linguaggio del teatro.

“La classe” è frutto di un progetto multidisciplinare che ha visto collaborare soggetti impegnati nei campi della ricerca, della formazione e della psichiatria sociale; è stato realizzato in collaborazione con Tecnè, Società Italiana di Riabilitazione Psicosociale, Phidia e con il sostegno della sezione italiana di Amnesty International. Da una ricerca basata su migliaia di interviste mirate rivolte a giovani tra i 16 e i 19 anni, che ha dato impulso e contributo alla scrittura drammaturgica, è scaturito il substrato realistico su cui si innesta la rappresentazione, che individua e indaga uno spaccato sociale odierno dai connotati particolarmente problematici. All’appello sul palco: Claudio Casadio (il preside), Andrea Paolotti (il professore), Brenno Placido, figlio d’arte (il bullo Nicolas) e poi gli altri studenti Valentina Carli, Cecilia D'Amico, Edoardo Frullini, Andrea Monno e Giulia Paoletti.

La scuola rappresentata si colloca in una cittadina europea qualsiasi in forte crisi economica e identitaria (la città d’ispirazione del testo è Calais, in Francia). La “classe” pulsa e fibrilla nell’aula malmessa e fredda (realizzata da Alessandro Chiti) di un Istituto Comprensivo specializzato in corsi professionali di avviamento al lavoro; è incistata in un quartiere popolare situato a poca distanza da un enorme campo-profughi, lo “Zoo”, che da una parte pare avere ulteriormente deteriorato un tessuto sociale sull’orlo del collasso, ma che ha anche portato lavoro — non ultimo, paradossalmente, la costruzione di un muro per evitare la fuga dei rifugiati. Disagio, criminalità e conflitti sociali sono il pane quotidiano di questi moderni “senza famiglia”, a testimonianza di uno smagliamento della civiltà che sembra procedere in discesa su binari senza fine.

Il professor Albert, una laurea in Storia e una storia complicata alle spalle, alla sua prima esperienza lavorativa deve “recuperare” in quattro settimane sei studenti sospesi per motivi disciplinari. Abbandona da subito i metodi tradizionali, sceglie trattamenti d’urto e si pone in una posizione di ascolto. Non è il professore magnetico de “L’attimo fuggente”, Paolotti gli dà piuttosto il carattere del fratello maggiore e di chi sa di cosa sta parlando, quando prova a spiegare lo spaesamento. Intravvedendo una breccia nella rabbia, o nell’apatia malata che di volta in volta manifestano, l’insegnante riesce a drenare in parte malessere e mal di vivere e conquista la fiducia di quattro alunni. Il gruppo, inizialmente di malavoglia, partecipa a un bando europeo sul tema: “I giovani e gli adolescenti vittime dell’Olocausto”. I ragazzi si lasciano convincere inizialmente dal miraggio del premio abbinato, poi grazie a un documento che testimonia come nei paesi di provenienza dei rifugiati regnino ancora persecuzioni e torture.

Alcuni di loro si impegnano a ricostruire le storie delle vittime dell’Olocausto contemporaneo dilagante che prima ignoravano. Il preside assiste a questa virata che sembra far ben sperare per il futuro dei suoi studenti difficili senza particolare entusiasmo: a inizio spettacolo e a più riprese si rivolge agli spettatori e illustra la sua teoria non sull’etologia dello Zoo, ma su quella del pollaio, dove vivono galline con ali troppo piccole per volare e crudeli per necessità con i soggetti più deboli. La drammaturgia prevede eventi drammatici e un finale da non anticipare.

Il capobranco Nicolas è interpretato con la giusta ferocia da Placido; bravo anche lo zingaro Vasile-Edoardo Frullini che da un certo punto in poi sceglie, e non gli fa più da spalla. Le musiche a cura di Paolo Coletta, insieme alle luci, arrivano frequenti a scandire i tempi e a dare ritmo all’azione sul palco. Prescindendo da riflessioni sulla messa in scena dei fallimenti di un’istituzione primaria come quella scolastica che finisce per ghettizzare in questa maniera un gruppo di studenti “difficili”, la sfida di rappresentare su un palcoscenico oltre alla deriva la paura del diverso, le problematiche dell’emarginazione e del bullismo, i meccanismi da caccia alle streghe che attivano una caccia all’uomo, i temi dell’autolesionismo e della violenza criminale risulta davvero impegnativa.

Applausi all’impegno e agli interpreti, dal pubblico del teatro.