
Roberto Latini ha firmato il secondo appuntamento della 78ª edizione del Ciclo di Spettacoli Classici. Al centro, Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini
Il Teatro Olimpico di Vicenza, luogo anche in questa occasione omaggiato e protagonista nel suo essere emblema di storia e di risonanze antiche, ha accolto venerdì 26 e sabato 27 settembre in prima assoluta lo spettacolo Ànghelos, di Roberto Latini. Secondo appuntamento della 78ª edizione del Ciclo di Spettacoli Classici — ha seguito VENI, a goodbye, del Collettivo Alot — Ànghelos è prodotto dal Teatro della Toscana e rappresenta una tappa autonoma di un percorso più ampio ideato da Latini ruotante attorno a uno dei capolavori di Pier Paolo Pasolini: il film Il Vangelo secondo Matteo.
Il lavoro, architettato come drammaturgia di confine sospesa tra rito e teatro, tra cinema e poesia, tra l’opera pasoliniana da cui trae linfa e il mondo antico, è stato adattato appositamente per essere ospitato nell’imponente cornice classica.
Attore, regista e drammaturgo tra i più apprezzati nel panorama del teatro contemporaneo, Roberto Latini ha firmato testo, regia e compare nello spettacolo in veste di interprete affiancato da un cast di rilievo, formato da Elena Bucci, Marcello Sambati e Luca Micheletti. Le musiche eseguite dal vivo, affidate a Gianluca Misiti, impegnato alle tastiere e a curare il suono, e a Piero Monterisi, alla batteria, hanno scandito le scene come un controcanto, tra sacralità e atmosfere moderne.
La narrazione creata da Latini si è svolta per frammenti, per epifanie. Il drammaturgo stesso, nelle sue note, ha parlato di una “bella occasione per considerare Pasolini feat. Giambattista Andreini, John Milton, Wim Wenders, Euripide, Peter Handke, Rilke”: un’orchestra di voci, parole e immagini d’autore che si riverberano nel presente.
L’angelo, nella sua veste di intermediario e di nunzio, è posto al centro, portatore di una parola che non appartiene agli uomini, figura sospesa tra annuncio e minaccia, tra rivelazione e mistero.
Ad accogliere gli sguardi degli spettatori, sul palco, alcune maschere alate, l’effige di un Mercurio messaggero, o di un viaggiatore spaziale. Sono state indossate via via dagli attori a scandire apparizioni angeliche che ricalcano quelle inserite nel film.
A lato, segni minimali ma dal significato potente, una croce e una cometa tracciate da luci al neon. Il linguaggio teatrale si è intrecciato da subito con quello cinematografico: i comandi di regia – “primo piano”, “ambientazione: casa di Giuseppe” – chiamati ad alta voce a dare un ritmo drammaturgico, sottolineando così la natura filmica del progetto.
Elena Bucci, in abiti mediorientali parlanti di un tempo senza tempo, ha incarnato Maria incinta, futura madre di Gesù, ma anche Ecuba, madre tragica della mitologia greca; in entrambi i casi, donne generatrici di eroi votati al martirio. Nella passione della figura fragile-forte che si agita in scena si è incarnata una maternità diventata archetipo, una donna-madre universale.
A succederle, la figura sottile di Marcello Sambati, le braccia avvolte da lunghi sciantosi guanti rossi; un ballerino quasi tirato da fili invisibili, mentre si compie il misfatto di re Erode.
Luca Micheletti ha dato corpo, voce e bel canto a Satana, o Lucifero, o Mefistofele: una figura proteiforme, tentatore nel deserto, serpente e sirena. Satana si ustiona, quando prende tra le mani la maschera alata e dorata. A fiorire in lui è la bellezza dell’angelo caduto, che vuole il male. L’intensa interpretazione dell’attore e baritono bresciano ha richiamato alla memoria le ombre del Mephisto, di Klaus Mann, personaggio che ha portato sul palco in passato. Indossati qui più specchiati fascino, maledizione e inquietudine.
Latini, vestito di bianco, all’interno della sua apparizione ha recitato con maestria Supplica a mia madre, celebre poesia di Pasolini, in un dialogo ideale con la figura di Susanna, madre del poeta e interprete di Maria da vecchia nel film. Diversi gli oggetti rossi presenti, – scarpe, guanti, ali d’angelo bruciato – a indicare un naturale altalenare dell’umano fra vita e sacrificio, fra rosso-amore e rosso-sangue. Nel finale, protagonista di un volo convulso, agitato da grandi ali scarlatte, Latini ha trasformato l’angelo algido alla Wenders in una creatura rock, quasi un demone contemporaneo precipitato in un’estasi pagana.
Il lavoro è a più riprese attraversato dalla parola “bambini”, pronunciata da una voce fuori campo e non, ripetuta in un’eco. Bambini friulani, bambini pasoliniani, ma anche i bambini della poesia Quando il bambino era bambino di Peter Handke, proposta come interrogativo aperto sul senso dell’infanzia e dell’innocenza. Il tutto è andato a rimare inevitabilmente con l’attualità, e con l’imperativo diventato iconico riportato in centinaia di cartelloni nelle piazze italiane: “definisci bambino”.
Ànghelos, così come è stato presentato, non si raffigura come uno studio preparatorio, né in un progetto del tutto compiuto: è piuttosto un attraversamento di simboli, citazioni e immagini che dialogano sapientemente con Pasolini, con il teatro antico e con una galassia densa di riferimenti letterari e artistici. La tradizione classica e il Vangelo pasoliniano vi incontrano inoltre, come visione regnante su tutte, le istanze del presente. In scena, un montaggio di sequenze che invita al riconoscimento e all’indagine, nella sua caratura simbolica; tutto volutamente distante da una dimensione narrativa, o emotiva, lineare. Teatro vivo, nel volo furioso dell’angelo insanguinato.
Applausi calorosi alla bravura degli interpreti, dal pubblico dell’Olimpico.