Recensioni - Opera

A Brescia Don Quichotte di Jules Massenet

Nel complesso modesto il nuovo allestimento di Operalombardia

Dopo il debutto a Pavia, giunge anche a Brescia per due serate Don Quichotte di Jules Massenet, nell’allestimento di Operalombardia per i Teatri di Brescia, Cremona e Pavia.

Di esecuzione più che rara in Italia, Don Quichotte è l’unico titolo della stagione che si distingue per originalità e che esce dal repertorio più rassicurante. Una bella occasione dunque, riuscita tuttavia solo parzialmente.

L’opera di Jules Massenet è del 1910 e debuttò a Monte Carlo con il grande basso Fëdor Šaljapin nel ruolo del titolo. Non è tratta, come si potrebbe pensare, direttamente dal Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, bensì da una riduzione teatrale coeva a Massenet: Le Chevalier de la longue figure di Jacques Le Lorrain, da cui Henri Caïn trasse il libretto.

Si tratta a tutti gli effetti di un alleggerimento in dramma da boulevard: dove si riduce l’infinito romanzo di Cervantes a pochi episodi salienti e in cui viene sostanzialmente mutato il carattere di Dulcinea, che diventa una dama da commedia, spigliata e volitiva. È dell’ultimo grande successo di Massenet, il compositore morirà infatti pochi anni dopo, non senza aver composto ben altre quattro opere. Spartito di grande ecclettismo, il Don Quichotte non raggiunge le vette di Thaïs, ma ha diverse pagine interessanti, in particolare le scene riflessive e poetiche dedicate al protagonista. Singolari le affinità con la Carmen di Bizet, vuoi per gli spagnolismi musicali di pura invenzione, vuoi per i quartetti del quarto atto molto simili a quelli di Bizet, vuoi per la declinazione brillante e “à la cocotte” del personaggio di Dulcinea.

Il regista Kristian Frédric immagina una scena simbolica ed evocativa, ambientata in una casa di riposo in cui Don Chisciotte è rinchiuso. Dulcinea e Sancho sono ovviamente gli infermieri che nei sogni ad occhi aperti del cavaliere si trasformano nei personaggi del romanzo. Le scene sono di Marilène Bastien e i costumi di Margherita Platé.

L’idea è sulla carta interessante e funziona nelle scene poetiche che si trasformano in iperboli oniriche di Don Chisciotte, in particolare nel terzo atto in cui viene immaginata una stanza dei bambini con grandi sedie e giocattoli. Non funzionano invece gli atti di insieme, il primo e il quarto, in cui il coro è seduto immobile intorno ai tavoli dell’ospizio. Qui l’opera parla di feste e balli, in piena aderenza allo stile del Grand Operà, e la forzata immobilità risulta insopportabile perché non ha nessuna relazione con la musica. Prima di ogni atto ci sono riferimenti all’infanzia, addirittura un testo letto al buio che parla di malattia psichica; sovrastrutture inutili che nulla aggiungono al messaggio dell’opera. Il “paziente” Don Chisciotte diviene presto ripetitivo e senile; l’infermiera Dulcinea non c’entra niente con la voglia di trasgressione del personaggio di Lorrain; l’infermiere Sancho si trasforma in scudiero e poi in una sorta di clown triste, senza guadagnare porofondità e significato.

Non mancano i palloncini rossi, pupazzi gonfiabili, letti d’ospedale, un pianoforte e così via. Alcune scene sono azzeccate, ma nel complesso prevale la confusione, l’eccesso simbolico, la sovrastruttura cerebrale. A tratti il regista sembra cadere nella tentazione di supplire alle mancanze del coro, poco espressivo anche se comodamente seduto, e dei cantanti, abbastanza spaesati, cadendo nel tranello opposto: l’eccesso.

La compagnia di canto non brilla particolarmente, sembra più attenta a portare a casa la recita e a ricordarsi cosa fare in scena. Non serve un esperto per capire che le prove sono state insufficienti

Nicola Ulivieri ha una bella voce, omogenea ed educata, ma non ci ha coinvolto particolarmente. L’interpretazione risulta eccessivamente senile, mentre per questa parte serve il magnetismo del grande mattatore. Nel complesso però porta a casa la serata più che dignitosamente.

Lo stesso dicasi per il Sancho di Giorgio Caoduro, corretto e preciso, ma quasi sopraffatto da continui cambi di costume e appuntamenti registici. Ne risente inevitabilmente l’interpretazione: professionale, ma distante, a tratti distaccata.

Chiara Tirotta non è a suo agio nei panni di una Dulcinea, che, nella versione di Massenet, dovrebbe essere una versione sbarazzina di Carmen. Il canto risulta poco incisivo nel primo atto, mentre nel quarto l’imbarazzo scenico è evidente. Completano il cast senza infamia e senza lode Raffaele Feo, Roberto Covatta, Marta Leung, Erica Zulikha Benato.

Jacopo Brusa dirige in modo prudente e accomodante la partitura, con occhio sempre attento a tenere insieme buca e palcoscenico. Insufficiente il Coro Operalombardia.

Dopo l’intervallo la schiettezza di una signora bresciana dietro di me ha ben sintetizzato la serata, nel momento in cui ha sussurrato al marito: “Non mi prende quest’opera, dove andiamo a cena?”

Applausi di cortesia nel finale.

Raffaello Malesci (Venerdì 7 Novembre 2025)