Recensioni - Opera

A Erl una Bohème ambientata nel paese delle meraviglie di Alice

Confusa la regia, pesante e monolitica la direzione di Asher Fisch

Primo spettacolo per il nuovo corso al festival Tirolese di Erl sotto la direzione di Jonas Kaufmann. In omaggio all’anno pucciniano si parte con un allestimento di La Bohème di Giacomo Puccini, affidato alla bacchetta del direttore musicale Asher Fisch e, per la regia, alla giovane spagnola Bárbara Lluch, coadiuvata per le scene da Alfons Flores e per i costumi da Clara Peluffo Valentini.

La regista sceglie un’ambientazione contemporanea con una scena inquadrata da una parete a led rettangolare che permette varie proiezioni. L’ambientazione si rifà a “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, perciò ad un immaginario assai lontano da “Scènes de la vie de bohème” di Henri Murger, da cui poi è tratto il libretto di Bohème, se non per il fatto che entrambi i testi appaiono a cavallo della metà dell’ottocento.

Troviamo il primo quadro ambientato nella classica soffitta, rivisitata in stile moderno, ma questo è oggigiorno in area germanica quasi una banalità più che un’innovazione. Mimì dorme nella stanza accanto, tossisce, forse sogna qualcosa, magari di essere Alice. Se non che, quando decide di far visita a Rodolfo, è effettivamente vestita di azzurro, con calzettine bianche e ballerine nere, da Alice appunto, e si muove in modo infantile e insicuro. Questa cosa non si nota particolarmente nel primo quadro, assuefatti come siamo a costumi e movenze singolari. Durante il duetto d’amore fra Mimì e Rodolfo sullo sfondo si materializzano delle rose, probabilmente un altro rimando ad Alice e ai giardinieri del romanzo.

È nel secondo quadro che l’idea si rivela, con il coro, le comparse e gli stessi bohemiens vestiti da personaggi del racconto di Carroll. Perciò abbiamo Colline con in testa le orecchie da coniglio, Parpignol come cappellaio matto, Musetta non ben decifrabile ma che assomiglia al gatto Cheshire e via di seguito. Il coro presenta tutta una serie di personaggi: dagli scacchi, alle carte, fino a pupazzi a molle e cappellai di tutti i generi. Ci è sfuggito il bruco, ma certamente c’era, anche perché, al di là dell’idea, la scena risultava nel complesso caotica e mal gestita. In mezzo a questi personaggi di fantasia non mancano di apparire i tavoli del cafè Momus, insomma quando la regista non sa bene dove andare, torna al libretto. Nel finale del secondo quadro, la nostra Alice/Mimì si sdoppia e vede intorno a sé tanti cloni del suo personaggio, svariate Alici bambine che cerca di rincorrere ed afferrare senza riuscirci. La confusione rimane costante e i rimandi simbolici, se ci sono, oscuri.

Il terzo quadro è completamente scarnificato e in scena troviamo solo il letto di Alice (Mimì) e la iconica porta che tanta parte ha nel romanzo di Carroll. Le pareti a led mostrano un funereo drappo cinereo. Di Puccini resta la neve, che cade abbondante e continuativamente. Nessun personaggio secondario appare, tutto viene cantato da fuori scena, mentre Alice (Mimì) si mette gli stivali. Straniante sì, pregnante no, estetico in parte.

Nel quadro finale ci si sarebbe aspettato la soluzione del concetto registico: una catarsi, l’unione fra Mimì e Alice, il risveglio se vogliamo restare con Carroll, oppure la realtà che afferra la povera Mimì, strappandole l’illusione infantile di essere Alice. Insomma qualche cosa, qualsiasi cosa, anche la regina di Cuori che entra in scena gridando “Tagliatele la testa!”.

Niente di tutto questo. Resta la neve per terra e torna la soffitta. Di Alice non sembra esserci più traccia, se non un costume azzurro, portato in scena nel finale e appoggiato su una sedia. L’epilogo è classico, prettamente ottocentesco, salvo i costumi strampalati. La stanza di Mimì/Alice rimane vuota, nessuna illuminazione, nessuna risoluzione. In questo senso la regia delude, dimostrandosi velleitaria, confusa e senza una visione chiara.

Anche la parte musicale è stata fortemente inficiata dalla direzione pesante e monolitica di Asher Fisch, che gestisce l’orchestra tutta sul forte, senza preoccuparsi delle sfumature e di un corretto rapporto con il palcoscenico. Una prova deludente, che mette in grande difficoltà la giovane e non sempre esperta compagnia di canto. Di conseguenza si perdono buona parte delle battute, il canto sulla parola è incomprensibile, i sentimenti e il fraseggio azzerato.

Difficile giudicare in questo senso la compagnia di canto, sepolta dietro una parete sonora spesso invalicabile, soprattutto per voci non grandissime. Si segnala per vocalità e spigliatezza scenica la Musetta del soprano norvegese Victoria Randem, che almeno riesce a farsi sentire. Sotto tono e spaesata la Mimì di Sara Cortolezzis.

Il tenore cinese Long Long subentra in ultimo nella parte di Rodolfo, ha bella voce, ma fatica non poco ad arrivare al pubblico. Tommaso Barea avrebbe potenzialità sia vocali che sceniche, ma qui è costretto ad ingrossare la voce e non trova intesa scenica con i colleghi. Gli altri corretti e volonterosi: Liam James Karai, Jasurbek Khaydarov, Piotr Micinski, Peter Kirk.

Grandi applausi per tutti nel finale da un pubblico molto accondiscendente e caloroso.

Raffaello Malesci (Venerdì 27 Dicembre 2024)