Recensioni - Opera

A Macerata una Tosca contemporanea ambientata durante il maccartismo

Risultato confuso per l’ambizioso progetto di rivisitazione drammaturgica di Valentina Carrasco. Discreta la compagnia di canto.

A Macerata il cinquantottesimo Opera Festival inaugura con una Tosca contemporanea che farà discutere. La regista Valentina Carrasco sceglie infatti di ambientare la vicenda negli Stati Uniti durante le repressioni maccartiste degli anni cinquanta del novecento. Ne consegue che tutto si svolge all’interno di uno stabilimento cinematografico di cui Scarpia è il boss, Tosca una delle dive in concorrenza ovviamente con la Attavanti, Cavaradossi un attore ribelle in odore di comunismo.

La Scarpia Pictures

Ma andiamo per ordine. Scarpia è il proprietario della “Scarpia pictures” e sotto la sua egida si produce un film in costume dal titolo “Marengo”, i cui protagonisti sono la Marchesa Attavanti, che prima dell’inizio della musica pare concedersi sessualmente a Scarpia per ottenere la parte, e il generale Melas. Tutte queste informazioni si apprendono dai titoli di testa del film diligentemente proiettati all’inizio dell’opera.

Se non che al film partecipa anche la diva Floria Tosca, che giunge sul set in abito anni cinquanta, salvo poi prepararsi per le riprese e cambiarsi in un sontuoso abito di primo ottocento. La scena è divisa in una parte anni cinquanta e in una scenografia cinematografica, atta a rappresentare nel finale dell’atto un te deum che in realtà altro non è che un “ciack” cinematografico. Il povero Angelotti è probabilmente un autore di sinistra in fuga dalla polizia segreta di Scarpia/Joseph McCarthy, protetto da Cavaradossi che però non si capisce bene che ruolo svolga all’interno dello stabilimento cinematografico.

Tosca da una parte, Marengo dall’altra

Il tutto è risolto con una doppia scena: da una parte la vicenda “reale”, dall’altra le riprese o i preparativi del film. Nel finale la scena si triplica, infatti, oltre alle due scene citate, si aggiunge anche la proiezione in diretta sulla parete di fondo dell’anfiteatro di quello che si sta girando.

Nel secondo atto lo schema si ripete: a sinistra troviamo la roulotte ufficio di Scarpia e a destra i preparativi e successivamente la messa in scena di un banchetto per il film Marengo, ovviamente con conseguente proiezione del risultato. La regista deve essersi resa conto della poca chiarezza del messaggio, tanto che ha ritenuto necessario proiettare all’inizio del secondo atto le immagini dei processi e delle persecuzioni maccartiste, onde chiarire pienamente il suo intento.

Ovviamente Scarpia non è solo il boss della Scarpia Pictures (con logo molto simile alla Metro Goldwyn Mayer), ma indulge anche a guardare di nascosto filmini di Marylin Monroe e, non contento, riprende Tosca da vicino mentre canta il “Vissi d’arte”, probabilmente per arricchire la sua cineteca di pruriginose immagini proibite. Dal canto suo Tosca nel finale si vendica finendo l’aguzzino con la stessa telecamera, dopo averlo come di prammatica accoltellato.

Nel terzo atto, dopo aver visto scorrere i nomi proiettati delle vittime del maccartismo, assistiamo ad una serie di provini per il film: prima quello del pastorello per la sua canzone, poi quello per Cavaradossi che canta “E lucean le stelle” in favore di telecamera per documentarne il possibile inserimento nel film. La fucilazione è organizzata come una ripresa, ma qualcosa sembra andare storto, tanto che tutti restano sgomenti alla morte di Cavaradossi. Un “errore” organizzativo, oppure il disegno di Scarpia? Tuttavia poi irrompe la polizia in modo abbastanza inspiegabile e Tosca si getta da un praticabile, ovviamente diligentemente ripresa e inseguita dalla telecamera, che ne immortala la fine con voyerismo macabro invero prettamente contemporaneo.

Palcoscenici multipli

La regista nella presentazione parla di “teatro nel teatro” in modo tuttavia improprio. Nel classico “teatro nel teatro” si recita qualcosa a favore di altri attori che si fingono spettatori, come accade nell’epilogo dello shakespeariano Sogno di una notte di Mezza Estate; oppure si scopre la macchina teatrale dall’interno come nel goldoniano Teatro Comico. La Carrasco invece crea una serie di palcoscenici multipli (il set anni cinquanta, la scena bonapartista del film) ove l’azione ha luogo nello stesso momento e, non contenta, proietta anche un video dell’azione che si svolge nel secondo palcoscenico.

Ne sortisce un effetto di assoluta confusione, in cui lo spettatore non sa bene quale storia seguire: la vera e propria drammaturgia di Tosca a sinistra oppure la ripresa del film a destra, oppure ancora le immagini proiettate in alto? Questa cosa può forse funzionare al circo, dove si assommano numeri in piste diverse, ma non a teatro.

La controscena si mangia la scena

Inoltre vi è un utilizzo sovrabbondante delle cosiddette “controscene”, che, sfuggite di mano anche in questo caso, creano un continuo effetto di distrazione. Ne consegue che durante il duetto d’amore del primo atto fra Tosca e Cavaradossi nella parte destra assistiamo ad un ciondolare di comparse cinematografiche in costume, che inevitabilmente catturano l’attenzione ai danni dei poveri protagonisti. Così ammiriamo l’arrivo di Cleopatra e Marco Antonio che si mettono a chiacchierare con un Batman giunto da un altro set; questi lasciano poi spazio a dei coloratissimi cow boy, siamo al tempo del technicolor, che provano un ballo country. Presi da questi e altri figuranti prima o poi ci si ricorda che l’azione si sta svolgendo da un’altra parte. In gergo si dice che la controscena si è mangiata la scena.

L’immagine proiettata prevale

La proiezione in alto delle immagini ha inoltre l’inevitabile effetto di prevaricare e di prevalere rispetto al dato reale, all’accadimento teatrale dal vivo. Così nel terzo atto si assiste alla romanza di Cavaradossi guardando l’immagine proiettata, così come il “Vissi d’arte” viene vissuto principalmente dalla ripresa che ne sta facendo Scarpia. L’atto dal vivo viene insomma “mangiato” dalla luce che emana la proiezione e che cattura inevitabilmente lo sguardo del pubblico come un lampione cattura le falene di notte.

Insomma la regista Valentina Carrasco, affiancata da Samal Blak (Scene), Silvia Aymonino (Costumi) e Peter Van Praet (Luci), si è gettata in un progetto ambizioso, forse doveroso fiorendo ovunque le messe in scena tradizionali di Tosca, ma che le è chiaramente sfuggito di mano.

Ne è risultata una messa in scena confusa e con molte trovate al limite della parodia.

Il cast

Donato Renzetti dirige con qualche lentezza l’orchestra filarmonica marchigiana, capitanando un cast tutto sommato discreto su cui spicca la grande esperienza di Claudio Sgura, uno specialista del ruolo di Scarpia. Il baritono riesce ad essere vocalmente incisivo e scenicamente convincente, forse l’unico che è riuscito a trasmettere in modo adeguato quanto concepito dalla regia. Infatti sfoggia una recitazione calibrata ed efficace, sempre supportata da una voce torrenziale e ben gestita. Un’ottima prova per lui.

Antonio Poli è un Cavaradossi corretto e generoso anche se scenicamente non proprio a suo agio in questo tipo di allestimento. Lo stesso dicasi per Carmen Giannattasio che convince al netto di alcune asprezze e forzature in particolare nel registro acuto. Armando Gabba ben interpreta la parte del sagrestano, che in realtà è stato trasformato in regista, anche se la voce non risulta adatta per volume all’arena sferisterio. Alessandro Abis è un ottimo Angelotti. Corretti e professionali gli altri interpreti: Saverio Fiore, Gianni Paci, Franco di Girolamo e Sofia Cippitelli.

Pubblico numeroso e in gran spolvero per la prima. Applausi solo cordiali nel finale.

Raffaello Malesci (22 Luglio 2022)