L'opera rossiniana al Teatro Sociale nell'allestimento firmato da Damiano Michieletto
Poche sedie rosse, qualche ombrello buono ora per nascondersi ora per ingaggiare donchisciotteschi duelli, una scala per avvistare l’amata, una manciata di palloni bianchi che finiscono per invadere la platea. La lezione di Damiano Michieletto – Arlecchino d’Oro 2025, il più giovane di sempre tra i premiati dalla Fondazione Artioli - in questo Barbiere di Siviglia proveniente dal Teatro del Maggio di Firenze e approdato in ultima tappa della sua tournée a Mantova, è un piccolo gioiello di sottrazione. Come a dire che a fare la differenza non sono i mezzi, ma ciò che dalle pagine sappiamo pescare. E il regista veneziano, in queste settimane al cinema con la sua opera prima, Primavera, dedicata a Vivaldi, dal capolavoro di un giovane Rossini distilla la quintessenza della Commedia dell’Arte.
Una girandola mirabolante che permea lo spazio nudo di colori sgargianti, di maschere – straordinaria la gag dei poliziotti-paperini, armati di pistole ad acqua, in chiusura di primo atto - e che finisce per insinuarsi anche sotto la pelle dei personaggi. Bartolo-Balanzone con faccia da bulldog, Basilio-rettile, così che la celeberrima aria della calunnia si fa plastica evidenza, Berta che sotto il grembiule di serva rivela un’ardita mise in rosso sgargiante. E Figaro, un Arlecchino postmoderno e surreale, con acconciatura che ne sottolinea le orecchie da volpe. Di fronte ad un pubblico numeroso (l’occasione avrebbe meritato il sold out), lo scorso 23 dicembre, Il barbiere di Siviglia approdava al Sociale come una carovana festosa sulla scena divenuta stazione ferroviaria, con la voce che dall’altoparlante annunciava il treno in partenza per Siviglia.
Tutti in carrozza, dunque. Figuranti e pubblico, animati dal fibrillante ostinato del ritmo rossiniano, scossi dalla sua ossessiva ripetitività sfociante nel proverbiale crescendo, parossistico e caricaturale, cinica rivelazione di quanto il mondo sia commedia. In buca, alla guida dell’Orchestra Filarmonica Italiana, la bacchetta di Jacopo Brusa conferiva all’incalzante sequenza di fatti un’energia asciutta ed efficace che sottolineava, della partitura, l’algebrica geometria delle linee talvolta a scapito, tuttavia, della trepidante bellezza della carne, del tessuto tutto insinuazioni, allusioni, sottigliezze. Quello veniva affidato allo svettante clavicembalo, puntualissimo commentatore, ma anche suggeritore, di miniature ironiche, citazioni, piccoli lampi di spirito che regalavano ai recitativi un sapore ulteriormente speziato. La compagnia vocale vedeva Pietro Adaini negli sfidanti panni di un Almaviva dalla vocalità spontanea e dal fraseggio complessivamente morbido e galante, supportato da bella presenza attoriale; nel ruolo eponimo, Vincenzo Nizzardo era un Figaro a tratti leggermente ruvido e piuttosto monocorde nella resa del ventaglio espressivo della sua maschera, ma teatrale quanto basta per guadagnarsi la simpatia del pubblico; dalla sua, Graziano Dallavalle dava al suo Basilio l’acida, sgradevole sfumatura della velata minaccia. Infine, Mara Gaudenzi: non una Rosina piumata e manierata ma una creatura di viva intelligenza travestita da brio. Una voce poco fa scivolava morbida e sobria e traduceva la maliziosa grazia rossiniana in arguta strategia sentimentale. Complessivamente convincenti anche Francesca Mercuriali, Berta scenicamente efficace con qualche fatica nello strumento vocale, ed Enrico Marabelli, Bartolo ben calato nel suo impacciato personaggio. Giulio Riccò completava il cast con un adeguato Fiorello. Suo il Piano pianissimo iniziale, che dà la tinta a tutta la vicenda.
Applausi scroscianti per un Rossini vivo, così sorprendentemente necessario. “Vedere il pubblico a teatro è il valore di una città. E l’opera è serbatoio di contrasti, laboratorio di analisi di una società, del proprio tempo” aveva detto Michieletto con il premio tra le mani. Peccato che, nella programmazione annuale, questo Barbiere sia l’unica opera in un cartellone ancora orfano di lirica. Un digiuno che non fa bene, e che deve invitare a pensare.