Recensioni - Opera

A Parma un Andrea Chénier secondo tradizione

Riproposto al Teatro Regiol'allestimento firmato da Nicola Berloffa. Protagonisti: Grigory Kunde, Saioa Hernandez e Luca Salsi

È già lì, la ghigliottina, annidata dietro le tele di azzimate creature in posa, riflessi a loro volta di azzimate creature altrettanto in posa. Gonne fruscianti che si muovono al ritmo di gavotte e minuetti, tra feste e ricevimenti, baciamani e dialoghi fatti di niente, a colpi di citazioni dotte e di convenevoli. Intrighi e amori orditi a mezza voce, nelle sale di palazzi che un esercito di zelanti domestici si scapicolla a salvare dalla polvere.

È così che l’Ancien Régime vive sonnolento le sue ultime ore, nell’indifferenza spocchiosa e irragionevole di ciò che la vita riserva oltre sue stanze, al di là delle sue asfittiche logiche. Fuori, soffia il vento del cambiamento, della storia. Quando una sua folata scaraventerà a terra il quadro – un ritratto di famiglia di Maria Antonietta ad opera di Élisabeth Vigée Le Brun - a torreggiare sarà la sua luce metallica, la sua sagoma incombente, monumento ad una giustizia civile destinata a farsi orrore e barbarie. Così, in una lettura che asseconda una connotazione storica decisamente difficile da aggirare (e ancor più da reinventare), la regia di Nicola Berloffa, già proposta nell’allestimento del 2019, immerge questo Andrea Chénier che, in scena fino al prossimo 11 maggio, chiude il sipario della Stagione Lirica del Teatro Regio di Parma. Ben presto, quei velluti, quelle trine, quella sdegnosa opulenza minuziosamente ricostruita, saranno preda della furia giustizialista della stagione del Terrore. Uomini venuti dal nulla, disperati, miserabili accecati dalla nuova religione civile, dalla promessa di un mondo nuovo, in una storia che rischia già nelle premesse di assomigliare paurosamente al suo passato, ma – ahinoi – anche al nostro futuro.

In questo potente affresco popolare fatto di passioni sentimentali ma soprattutto civili, rivendicazioni politiche e lotte sociali, ingredienti che non a caso avevano permesso al capolavoro di Umberto Giordano di trionfare alla Scala, nel 1896, prima di conoscere una stagione di più opaca fortuna, la bacchetta di Francesco Lanzillotta, alla testa dell’Orchestra Filarmonica Italiana, si muove sicura, dando ad ognuno dei quattro quadri che lo compongono la giusta connotazione espressiva, in un dialogo vivo e continuamente rilanciato con il palco: gusto cameristico finemente ordito nel dipingere il primo quadro e le scene di toccante intimismo, come la confessione di Maddalena, respiro grandioso e colori accesi nelle scene di massa, là dove il coro del Regio istruito da Martino Faggiani dà ancora una volta splendida prova di sé.

Sul palco, a contendersi gli applausi è un cast di nomi di prima grandezza, a partire da Gregory Kunde che, nel ruolo del giovane poeta, dà ancora prova dell’antica classe, al netto di uno strumento vocale piuttosto affaticato e non più smagliante. Applausi scroscianti i anche al marmoreo Gérard stagliato da Luca Salsi, negli ormai rodati panni del servitore accecato dalla causa rivoluzionaria e riscattato da un estremo atto di generosità. Elegante e misurata, infine, la Maddalena di Coigny delineata da Saioa Hernandez. Una nota di colore, in una prima, lo scorso 3 maggio, che ha visto bissare le tre arie apicali del dramma: dal loggione, una voce saluta la ripresa di “Nemico della patria” con un “Era meglio Capuccilli”. Dal palco, prontamente, Salsi rilancia, sorridendo: “Sono d’accordo con lei”. Così, con una battuta arguta, anche un servitore sedotto da Rousseau può seppellire un cafone.