
L’ultima opera di Musorgskij in un’edizione capolavoro ambientata ai nostri giorni diretta da Esa-Pekka Salonen
Per l’edizione 2025 il Festival di Pasqua di Salisburgo ha ospitato l’Orchestra Sinfonica della Radio Finlandese diretta da Esa-Pekka Salonen che è stata protagonista di una memorabile edizione di Chovanščina. Data l’attuale situazione di instabilità e complessità a livello politico internazionale che ci porta a vivere uno dei periodi di maggiore tensione e incertezza dal secondo dopoguerra, il capolavoro incompiuto di Modest Musorgskij si presenta come uno dei titoli più adatti per una riflessione sulla nostra epoca.
Opera politica per eccellenza, Chovanščina vede protagoniste 3 visioni della società, ciascuna rappresentata da uno dei cospiratori che tramano contro lo Zar Pietro il grande: un nobile, un militare ed un religioso. Ognuno di loro cerca di ammantare di idealismo quelli che in realtà sono istinti di sopraffazione, egoismo e fanatismo religioso, ed alla fine le loro parabole si concluderanno rispettivamente con un esilio, un omicidio ed un suicidio, mentre l’unico ad uscirne a testa alta sarà Šakloviti, il cortigiano delatore che svela i progetti dei congiurati. Un affresco storico che in realtà racconta vicende senza tempo e quindi ascrivibili ai giorni nostri, in cui la diplomazia si mescola con l’intrigo ed alla fine sono le pulsioni più profonde ed ancestrali a spingere all’azione.
La regia di Simon McBourney ha trasposto gli eventi in epoca contemporanea -in scena si usano gli smartphone mentre lo scrivano batte la lettera di Šakloviti al computer- caratterizzando i Khovanskij come una famiglia di oligarchi arricchiti che ostentano le loro fortune fatte in modo tanto rapido quanto poco trasparente: Ivan arrogante e volgare in pelliccia e catene d’oro; Andrej rampollo viziato con abiti provenienti da boutique griffate (appropriati i costumi di Christina Cunningham). Al contrario Dosifej si presenta come un predicatore di strada ed i suoi adepti non sono monaci ma gente del popolo che ha scelto di seguire una figura carismatica. Il ritrovo nell’elegantissima ma asettica abitazione di Golytzin ha i tratti di un moderno briefing (efficaci le scene di Rebecca Ringst impreziosite dalle luci algide di Tom Visser) in netto contrasto con gli abiti dimessi dei religiosi che si radunano di fronte.
Uno spettacolo, caratterizzato da una drammaturgia perfetta, dal taglio quasi cinematografico, con molte immagini che restano impresse nella memoria: dalla danza delle schiave persiane, qui rappresentata come un’allucinazione provocata dall’uso di stupefacenti; all’arrivo di Pietro in Grande in persona, che pronuncia le battute solitamente affidate a Strezhnev e chiude il quarto atto in modo alquanto sinistro; al bellissimo finale in cui Marfa, unica sopravvissuta al rogo suicida dei fedeli di Dosifej, prima sorregge il corpo di Ivan come una sorta di Pietà laica per poi tentare di ricoprirlo di terra per dargli degna sepoltura.
Una messinscena potente e coinvolgente cui ha fatto da contraltare un’esecuzione musicale di portata storica.
L’interpretazione di Esa-Pekka Salonen, ha compiuto un lavoro meticoloso partendo dall’orchestrazione di Dmitri Šostakovich e, se da una parte ha sempre mantenuto saldo il filo della narrazione, dall’altra ha lavorato sui timbri cercando nuove sonorità e ottenendo dall’orchestra colori e sfumature assolutamente nuovi. Basterebbero le due arie di Marfa -mai sentite così: una vera riscoperta- per decretare la grandezza della concertazione, ma in realtà ogni momento è rivelatore di nuovi particolari: dalla dolente malinconia dell’aria di Šakloviti al mistico finale, per cui Salonen ha, giustamente, optato per la versione di Stravinskij; in un fluire costante di musica magnificamente eseguita da un’orchestra complice e partecipe. Se Chovanščina ha conosciuto una rinascita nel 1989 con l’edizione viennese di Abbado, questa costituisce il nuovo punto di svolta nell’interpretazione di quest’opera.
Di grande livello il cast, su cui ha svettato Nadezhda Karayzina -Premio Karajan 2025- che ha delineato una Marfa musicalissima ma allo stesso tempo carismatica e magnetica sulla scena. Vitalij Kowaliov è stato un Ivan Kovanskij protervo, dal timbro morbido ma incisivo, mentre il Dosifej di Ain Anger dopo alcune asperità a livello vocale nel primo atto è cresciuto in corso d’opera acquisendo in incisività e autorevolezza.
Daniel Okulitch è stato uno Šakloviti intenso, dal fraseggio nobilissimo che nell’aria in cui si rammarica delle miserie della Russia ha toccato uno dei vertici dell’intera rappresentazione. Dal punto di vista delle voci tenorili: Thomas Atkins ha reso con grande credibilità la parabola di Andreij dall’iniziale arroganza alla conversione finale; Matthew White è stato un Golytsin dal timbro chiaro e luminoso, mentre Wolfgang Ablinger-Sperrhacke ha tratteggiato con efficacia il ruolo dello scrivano.
Ottime le prove del Coro Filarmonico Slovacco diretto da Jan Rozehnal e del Coro Bach di Salisburgo diretto da Michael Schneider.
Lo spettacolo è stato salutato al termine da ripetute ovazioni da parte di un pubblico entusiasta che riempiva ma purtroppo non esauriva il Festspielhaus.