Recensioni - Opera

A Verona pieno successo per un rigoletto di tradizione

Convince la ripresa in Arena dell'allestimento basato sull'edizione del 1928. Protgonista Ludovic Tézier

Bisogna tornare indietro di qualche anno, a quel Nabucco magnificamente risorgimentale di Arnaud Bernard, per ritrovare la stessa felice sintesi nell’impronta registica. Nel Rigoletto che ha debuttato lo scorso 8 agosto all’Arena Opera Festival, di fronte a poltrone e a gradinate da tutto esaurito, la firma è quella di Ivo Guerra, coadiuvato dalle scene di Raffaele del Savio, dai costumi di Carla Galleri e dalle luci di Claudio Schmid.

La tragica vicenda tratta Victor Hugo, primo tassello della cosiddetta Trilogia Popolare verdiana, vede, ricreata nei più minuziosi dettagli, la Mantova gonzaghesca, circondata dall’acqua di fiume che si fa subito lago, con il profilo svettante delle mura di cinta che lasciano intravedere il Castello di S. Giorgio con il suo gioco di poderose torri, i superbi giardini, le stanze magnificamente affrescate. Qui, in uno dei saloni delle feste, il micidiale meccanismo ad orologeria verdiano innesca la sua sequenza fatale: di fronte ad una folla di cortigiani, tra il fruscio di velluti e broccati, la maledizione di Monterone tocca il cuore di Rigoletto, il gobbo deforme costretto a sbarcare il lunario mordendo con il veleno della sua lingua intinta di amarezza la cinica nobiltà del palazzo. Smessi gli abiti del buffone, è un uomo senza volto e senza storia, intento a meditare tra i canneti del lago, quando l’incontro con il sicario Sparafucile gli instilla il sospetto delle attenzioni del Duca sulla figlia. Eccola, quindi, la vendetta affacciarsi sulla scena. Verdi la risveglia con il bisturi di una disarmante forza drammatica, in un gioco delle parti in cui lo scavo introspettivo nell’anima del protagonista, così come dei personaggi che gli ruotano intorno, trova amplificazione nella dimensione sociale della vicenda.

In questo debutto areniano, a vestire un po’ in prestito i panni di Rigoletto era la vocalità statuaria di Ludovic Tézier, con legati di superba fattura e uno strumento tecnicamente ineccepibile che, del tragico buffone, valorizzavano tuttavia solo alcune delle sue sfaccettature: la pugnace, eroica dignità assai più della pietà e della stanchezza dell’emarginato, solo a lottare contro un sistema avverso. Con lui, il Duca di Mantova era un Pene Pati in sin troppo evidente difficoltà, strozzato negli acuti e ancora incespicante nel prendere pieno possesso del suo personaggio. Non molto meglio la Gilda di Nina Minasyan, esitante proprio là dove Verdi dissemina le sue trappole. Di bello smalto, sebbene non sempre a fuoco nell’intonazione, lo Sparafucile di Gianluca Buratto, accompagnato dall’efficace Maddalena di Martina Belli. Come sempre ineccepibile Agostina Smimmero, qui nei panni di Giovanna. Applausi meritati al Monterone di Abramo Rosalen, al Marullo di Nicolò Ceriani e ai due Conti di Ceprano, rispettivamente Hidenori Inoue e Francesca Maionchi. In buca, la direzione di Michele Spotti, ancora comprensibilmente bisognosa di qualche recita di assestamento, sollecitava orchestra e coro a trovare, à la Verdi, quell’alchimia di stringatezza ed espressività che in alcuni momenti apparivano già perfettamente compiute. Su tutti, il “Zitti, zitti” con cui, in un perfido sussurrio di magistrale fattura, il coro di cortigiani rapiva Gilda davanti all’ignaro genitore.

Ora, la produzione proseguirà fino al 6 settembre, con cast sempre diversi. Per il miglior Rigoletto oggi in circolazione, dopo l’addio alle scene del leggendario Leo Nucci, occorre attendere la serata del 30 agosto, quando in Arena arriverà Luca Salsi.