Recensioni - Opera

Adriana dietro le quinte

Una nuova riuscita produzione dell'opera di Cilea a Parma

È il lato oscuro della vita: la sua ombra, il suo fondale, ma anche l’inafferrabile territorio di confine da cui la quotidianità pesca linfa e senso. il palcoscenico ad un passo, oltre quel cono di luce. Là attendono gli applausi, i clamori, il destino dell’artista. Qui c’è il retrobottega, il prima e il dopo, lo spazio fisico e simbolico che intercorre tra i due mondi. Per l’Adriana Lecouvreur che, fino al prossimo 2 aprile, sarà in scena al Teatro Regio di Parma, la regia di Italo Nunziata – ben coadiuvata dalle scene di Emanuele Sinisi e dai costumi di Artemio Cabassi - ha scelto un taglio insieme asciutto e rivelativo: un retropalco, cabinet d’artiste, sala prove ma anche luogo indefinito in cui personaggi e destini in cerca di autore si mischiano in quella confusa eccitazione che prelude l’entrata in scena, occhio da cui sbirciare la finzione ma anche a cui ispirarsi per plasmarla assecondando desideri, cullando sogni, progettando vendette.

Uno spazio restituito per accenni, quasi per citazioni, con il miraggio lontano di un sipario alzato solo a metà, chiamato a fare da pedale di fondo all’intero snodarsi della vicenda, presente anche nella (magnifica) scena d’interni in cui l’inamidato Settecento in cui la vera Adriane si muoveva viene efficacemente trasposto in un vago living altoborghese anni ’50, tra marmi, imponenti scalinate, eleganti tavolini da cui servirsi per un whisky da sorseggiare. In quegli spazi impeccabili, ancor più che altrove, si gioca infatti la prova più ardua per la diva da tutti osannata, lì dove il suo cuore trepidante per lo spavaldo Maurizio viene insidiato dalle minacce della contessa di Bouillon. Un grandioso, titanico duello tra donne che amano, crudele e spietato come lo è ogni cuore femminile quando punto sul vivo, disposto ad uccidere, pronto a morirne. Cilea, con una sapienza capace di condensare il turbine di universi emotivi in una scrittura troppo schematicamente finita nel cassetto del cosiddetto verismo, accende l’orchestra di una tavolozza tanto sensuale nello svaporante effettismo quanto chirurgica nella segreta alchimia dei suoi tiranti.

Con la consueta efficacia, la direzione di Francesco Ivan Ciampa – braccio solido e concreto, occhio attento a stanare i mille preziosismi che si annidano in un arazzo sonoro di prepotente ricchezza – incalza, sferzandola senza mai strapazzarla, la valorosa Orchestra dell’Emilia Romagna Arturo Toscanini, quasi a trovarne là, in buca ancor prima che in scena, la temperie della vicenda. Una scrittura pervasa di profumi, notturni, elegia che il direttore avellinese riporta alla luce con pari misura e trepidazione, consegnandolo al palcoscenico. Là, a raccoglierne lo slancio è un cast di prim’ordine guidato dall’Adriana svettante di Maria Teresa Leva. Una donna, ancor più che un personaggio; ragazza della porta accanto, più che sacerdotessa delle platee. Alla sua purezza, al suo innocente coraggio, il soprano calabrese dà non solo voce – uno strumento di smagliante bellezza e luminosità – ma anche spessore e sincerità alla delineazione del suo complesso personaggio, con momenti di toccante intensità quali “Io son l’umile ancella” e “Poveri fiori”, dipinti con totale, marmorea adesione. Accanto a lei, perfida e attraversata da un dolore che ci trova sorpresi a comprenderne le intime ragioni, è la principessa di Bouillon che la voce – ma anche la maschera mimica, l’intima teatralità – di Sonia Ganassi eleva ad eterna Erinni, vinta e vincitrice al tempo stesso.

Due ragioni a confronto, due mondi destinati ad eliminarsi a vicenda. Tra di loro, elegante nella bella vocalità non sempre provvista, tuttavia del necessario smalto espressivo, sta il Maurizio di Riccardo Massi. A diverse leghe – per lo scavo ad esplorare ogni tinta, per aristocratica levatura – è il Michonnet di uno straordinario Claudio Sgura, con il fardello nobilmente portato del suo inconfessabile amore sublimato in paterno affetto. Da applausi anche i comprimari, a partire dall’abate di Chazeuil perfettamente cesellato di Saverio Pugliese  e dal principe di Bouillon di Adriano Gramigni. Come sempre ineccepibile l’intervento, qui marginale ma non per questo meno prezioso, del coro, istruito da Martino Faggiani. Ultima recita, domenica 2 aprile alle ore 15.30.