Recensioni - Opera

Adriana in bianco e nero

L’opera di Cilea al Teatro Filarmonico in un’ambientazione che ricorda le dive del cinema muto

La parabola discendente dell’opera lirica in Italia, dopo il ritiro dalle scene di Giuseppe Verdi, vide affiancarsi al genio di Puccini un gruppo di compositori che, seppur differenti tra loro nello stile, vengono accomunati nella definizione di “Giovine scuola”, il cui elemento comune era un rimando, non sempre così evidente, alla poetica verista. Delle opere di Ponchielli, Leoncavallo, Mascagni Giordano, Catalani, Franchetti, al giorno d’oggi in repertorio rimangono stabilmente solo Cavalleria rusticana e Pagliacci, le uniche che possono fregiarsi dell’appellativo di capolavoro, mentre altre partiture, che pur godettero di una certa fortuna nella prima metà del secolo scorso, vengono occasionalmente riprese dai teatri più per interesse storico che per reale valore intrinseco.

 

A questo gruppo appartiene anche il calabrese Francesco Cilea, il cui titolo più famoso, Adriana Lecouvreur, è stato ripreso dalla Fondazione Arena nel corso della stagione invernale al Teatro Filarmonico a 30 anni di distanza dall’ultimo allestimento veronese. Ambientata nel mondo del teatro di prosa settecentesco, Adriana Lecouvreur necessita di una protagonista che non si limiti a cantare bene, ma che sulla scena abbia anche il carisma della grande attrice, dato che questo è il presupposto su cui si regge l’intera opera. Gli ultimi decenni hanno visto sul palcoscenico interpreti del calibro di Mirella Freni, Raina Kabaivanska -che fu Adriana anche nella precedente produzione veronese- e Daniela Dessì, la cui presenza costituiva il motivo stesso della ripresa di questo titolo.

Purtroppo in questa nuova edizione che ha visto nel ruolo di Adriana il soprano cinese Hui He, il miracolo non si è ripetuto. La cantante, pur sfoggiando un timbro solido e un’ottima estensione vocale, è parsa in difficoltà nel rendere l’eleganza ed il carisma della Diva, e questo si è tradotto, soprattutto nei primi due atti, in una linea di canto non sempre morbida ed in un fraseggio poco chiaroscurato. Nel terzo, e soprattutto nel quarto atto, in cui il canto si sposta più sul declamato, il soprano ha fornito una prova decisamente più convincente ed in linea con le sue caratteristiche. Al suo fianco Fabio Armiliato ha delineato un Maurizio di Sassonia elegante e disinvolto, grazie ad un registro centrale solido e ad un fraseggio curato. Qualche perplessità ha suscitato il registro acuto, non sempre impeccabile soprattutto nella zona del passaggio.
La Principessa di Bouillon di Carmen Topciu, la più a fuoco tra i quattro protagonisti, si è distinta per il timbro scuro e per una solida linea di canto, mentre Alberto Mastromarino è stato un Michonnet accorato e partecipe, nonostante qualche incertezza, soprattutto nel registro acuto.
Di buon livello la schiera dei comprimari su cui svettava il gustosissimo Abate di Roberto Covatta, dotato di timbro chiaro e luminoso ed eccellente nella caratterizzazione. Efficace il quartetto degli attori, interpretati rispettivamente da Massimiliano Catellani (Quinault), Klodian Kacani (Poisson), Cristin Arsenova (Mad.lla Jouvenot), Lorrie Garcia (Mad.lla Dangeville) mentre Alessandro Abis è stato un apprezzabile Principe di Boullion. 

Massimiliano Stefanelli, alla testa dell’Orchestra della Fondazione Arena ha impresso alla partitura un taglio romantico, accentuandone i contrasti e dirigendola con il dovuto trasporto. In qualche occasione le sonorità sono risultate forse un po’ eccessive, al punto di spingere i cantanti a forzare, ma il risultato è stato nel complesso decisamente apprezzabile, come lo è stata anche la prova del coro istruito da Vito Lombardi.

Ivan Stefanutti, autore di regia, scene e costumi, ha trasferito l’azione dalla prima metà del XVIII all’inizio del XX secolo, facendo di Adriana una delle prime dive del cinema muto. L’allestimento, tutto giocato sulle tonalità del bianco e nero, riscaldate da luci color ambra, era visivamente molto accattivante. Il colpo d’occhio era di grande effetto, grazie anche alla sapiente illuminazione di Paolo Mazzon. Tuttavia, ad una scenografia di tale efficacia non ha fatto riscontro una regia altrettanto incisiva. Stefanutti si è limitato a coordinare le entrate e le uscite dei vari personaggi, non approfondendone più di tanto i rapporti e lasciando il tutto un po’ in superficie. Una regia sostanzialmente funzionale e descrittiva in cui però è mancato il vero guizzo interpretativo.
Il pubblico del Teatro Filarmonico al termine ha decretato un caldo successo per tutti i protagonisti.

 

Davide Cornacchione 4/4/2019