Recensioni - Opera

Aida, ovvero il dramma del potere

Continua a far discutere l'allestimento di Stefano Poda

Sul nuovo allestimento di Aida, proposto quest’anno dalla Fondazione Arena di Verona in occasione del centesimo festival e ideato in tutti i suoi aspetti da Stefano Poda, molto si è detto e si è discusso, come è ovvio in questi casi, anche con pareri del tutto discordanti, non da ultimo nelle due recensioni già presenti all’interno di questo sito.

Una cosa è certa: il prodotto finale si concretizza in uno spettacolo grandioso, rutilante, obbediente ad un unico codice plastico e perfettamente in linea con le peculiari esigenze di pubblico e di spazio del grande anfiteatro veronese.

Nulla è concesso alla tradizione: pochi i rimandi ad un immaginifico Egitto dei faraoni che si sintetizzano, in buona sostanza, in alcune maschere indossate da figuranti, le quali rimandano alla figura dell’ibis, simbolo di Thot, o della leonessa, simbolo di Sekhmet. Tutto è proiettato in un futuro asettico e atopico che molto insiste sul contrasto dei colori dei costumi, il bianco, il nero, il rosso, il viola, i quali finiscono per creare effetti di indubbia efficacia, con qualche deriva di troppo in un eccessivo sfavillio di argenti e paillettes durante la scena del trionfo.

Il tema centrale è quello della ricerca del potere, che spinge l’uomo alla guerra e alla distruzione, una brama simboleggiata dalla grossa mano meccanica in movimento la quale giganteggia, fra fumi e luci laser, sul fondo della scena, oltre che dalle tante altre mani fissate in cima a dei pali, branditi come lance da coro e figuranti.

Da qui emerge l’inevitabile oppressione dei deboli, una massa informe, strisciante, che spunta simbolicamente dai sotterranei posti sotto l’enorme praticabile in plexiglass, il quale funge da palcoscenico, così da prostrarsi di fronte ai vincitori.

Uno spettacolo bello dunque, perfettamente godibile, grandioso, ma tanto intriso di simboli e in parte avulso dall’aspetto drammaturgico dell’opera da risultare a tratti poco intellegibile ad un pubblico come quello areniano, fatto in massima parte di turisti e non di esperti di lirica, che potrebbe certo essere colpito dall’ineccepibile organizzazione di coereografie e movimenti, dalla magnificenza di tutto l’apparato, ma al contempo essere un po’ disorientato nell’interpretare la vicenda. Non trascurabile d’altro canto anche una certa rumorosità dell’allestimento che in alcuni punti produce un sottofondo fastidioso.

Davvero bella, vibrante, convincente la direzione di Daniel Oren il quale, pur nella vastità dello spazio areniano, riesce ad evidenziare lo straordinario lavoro di cesello eseguito nell’analisi di una partitura a lui ben nota, sottolineando con vibrante delicatezza i momenti di preghiera, con solenne grandiosità quelli ufficiali e trionfali, per ripiegare poi verso quella garbata e leggera morbidezza che ben sottolinea i passaggi più intimistici. Davvero splendide nella loro ricercata sensibilità le agogiche scelte per la scena finale, in cui la preghiera della protagonista appare scolpita in un’aura di raffinato misticismo.

Maria Jose Siri nel ruolo eponimo giganteggia nel tratteggiare la figura di una donna innamorata e tormentata. Lo strumento è corposo e solido in tutti i registri, ma il meglio di sé la Siri lo dà quando sfoggia mezzevoci di struggente e vibrante delicatezza che viaggiano senza problemi all’interno della vastità dello spazio, raggiungendo anche gli ultimi anelli dell’anfiteatro, ben disegnando però al contempo quegli aspetti di dolce liricità sottesi al proprio personaggio.

Clémentine Margaine è una Amneris splendidamente algida nella sua spietatezza, capace di un pentimento finale che non scalfisce però minimamente la propria scorza di fierezza e rigidità. La voce è scura e ricca di armonici, omogenea, il fraseggio curato, la prestazione in continua ascesa fino a culminare in una magistrale scena del giudizio, ricca di pathos e drammaticità.

Il Radamès di Yohghoon Lee presenta i giusti tratti eroici, la voce ha un bel timbro, lo squillo c’è, ma al contempo l’interpretazione manca di qualche dettaglio, il fraseggio risulta generico e alcune muscolarità in acuto rischiano di declinare in eccessiva baldanza.

Corretto e vocalmente abbastanza convincente l’Amonastro di Gevorg Hakobyan, il quale d’altro canto risulta comunque un po’ statico, non sempre naturale ed è pertanto perfettibile sul piano interpretativo.

Per quanto concerne le parti di contorno, un po’ piatto e sotto tono il Ramfis di Rafal Siwek, buono invece il Re di Vittorio De Campo.

Con loro Riccardo Rados (Un messaggero), Francesca Maionchi (Una sacerdotessa). Bene il coro, preparato da Roberto Gabbiani.

Arena gremita di un pubblico variegato ed entusiasta, prodigo di applausi sul finale e durante il corso della rappresentazione,