Recensioni - Opera

Albertazzi: un Achab più letterario che epico

Più raccontata che realmente vissuta la messinscena di Moby Dick per la regia di Antonio Latella.

Il quarto appuntamento della rassegna “Il grande teatro” ha ospitato al Teatro Nuovo lo spettacolo Moby Dick che il regista Antonio Latella ha tratto dal celebre romanzo di Herman Melville, affidando all’intenso Giorgio Albertazzi il ruolo del capitano Achab.
La chiave di lettura impostata da Latella ha rinunciato a sottolineare l’aspetto titanico del protagonista e della sua sfida contro la natura, per tratteggiare invece un Achab molto più riflessivo, intimista, rinchiuso in un suo studio-biblioteca, che costituisce una sorta di spazio mentale, un luogo di isolamento rispetto al resto della nave.

L’Achab che si svela al pubblico, dopo quasi un’ora di spettacolo, ha poco a che spartire con quelle figure prometeiche che una certa tradizione ci ha consegnato, sopra tutte il Gregory Peck del film di Houston: quella fase ormai è stata superata, ed il protagonista ormai si è ripiegato su sé stesso, in una sorta di profonda riflessione sul senso di incompiutezza della propria esistenza. Da ciò si spiegano anche gli inserimenti di brani della Divina Commedia e del monologo di Amleto che, quasi a fine spettacolo, pone ancora l’interrogativo,  nel momento in cui protagonista cede il testimonio al giovane Ismaele: colui che dovrà raccogliere la sua eredità. Achab infatti sa che questo è il suo ultimo viaggio e che non potrà essere lui a raccontarlo ai posteri, pertanto tutta la lunga scena finale è una sorta di ideale passaggio di consegne all’unico marinaio che si salverà da quell’impresa e che avrà il compito di tramandarne la memoria.
Sulla base di ciò Latella ha costruito uno spettacolo estremamente asciutto e lineare, in cui l’azione lascia molto il posto alla parola ed i movimenti sono calibrati ed essenziali. Ne scaturisce quindi una messinscena sostanzialmente statica (caratteristica che ne costituisce forse il limite principale) in cui gli attori alternano una recitazione improntata sulla declamazione a momenti di silenzio, scanditi da gesti appartenenti al linguaggio dei sordomuti, a sottolineare ancora una volta l’incapacità di spiegare e di raccontare.
Il libro diviene perciò l’oggetto simbolo intorno a cui si snoda l’azione: libri rivestono lo studio di Achab, pagine di libri vengono strappate e distrutte, libri sono il piedistallo sopra il quale salgono gli attori per raccontare questa storia, trasformandosi loro stessi in uomini-libro e dando vita ad un’immagine che idealmente rimanda al finale del romanzo Fahrenheit 451, scritto da quel Ray Bradbury che, per coincidenza, fu anche sceneggiatore del succitato Moby Dick cinematografico di Houston.
Di notevole livello la recitazione dei vari interpreti, a partire dal carismatico Albertazzi e dal giovane ma convincente Ismaele di Rosario Tedesco, fedele compagno di navigazione in un viaggio intellettuale (forse un po’ troppo intellettuale) negli oceani della conoscenza.
Al termine delle quasi due ore filate di spettacolo i vari interpreti sono stati salutati da un applauso caloroso da parte del pubblico presente teatro.

Davide Cornacchione 13 gennaio 2009