Recensioni - Opera

All’Opera di Francoforte il girone dantesco di un prigioniero politico

Riuscita messa in scena di Da una casa di morti di Leoš Janáček all’Opera di Stato dell’Assia

Alla Staatsoper di Francoforte sul Meno viene proposta Da una casa di morti (Z mrtvého domu), ultima opera del compositore ceco Leoš Janáček, andata in scena postuma nel 1930 e ispirata all’omonimo romanzo autobiografico di Fëdor Dostoevskij.

Opera complessa e di non facile fruizione, data anche la sua costruzione ad episodi. Si narrano infatti le esperienze e gli incontri di prigioniero politico nei gulag siberiani russi. Il romanzo dostoevskiano è in parte autobiografico e riporta gli episodi accaduti allo scrittore stesso durante la sua prigionia. L’opera di Janáček ne riprende la struttura in maniera sostanzialmente fedele, il che però rende teatralmente la vicenda evanescente e a tratti confusa.

Sostanzialmente azzeccata la messa in scena del regista David Herman, coadiuvato dalla efficace scenografia di Johannes Schütz. Il regista franco tedesco sceglie di trasporre la vicenda ai giorni nostri e di trasformare il protagonista in un prigioniero politico che viene rapito e fatto scomparire dagli apparati di un moderno stato totalitario. Il protagonista è presente perciò in tutte le scene anche come muto testimone degli accadimenti nel campo di prigionia. Il passaggio da una scena all’altra avviene senza soluzione di continuità grazie a due pedane rotanti che richiamano con il loro movimento un girone infernale di dantesca memoria, in cui lo sfortunato protagonista si trova ad essere spettatore e prigioniero al contempo. Il regista riesce in questo modo ad esaltare efficacemente l’insensatezza e il meccanismo di perversi ingranaggi tipico del campo di prigionia. Insensatezza che promana dalla storia stessa, nel momento in cui, dopo questo crudele passaggio nei gironi infernali, il prigioniero viene liberato ed esce “a riveder le stelle”, come direbbe Dante, senza avere avuto però la minima cognizione della motivazione per cui è stato imprigionato.

Messa in scena scarna, lucida e ben organizzata. David Herman ha il merito imprimere un’efficace circolarità ripetitiva agli accadimenti della prigione, senza tuttavia riuscire a riscattare del tutto un lavoro già in partenza afflitto da diverse lacune drammaturgiche.

In grande spolvero l’orchestra dell’Opera di Francoforte, ottimamente diretta da Robert Jindra, che esalta la contemporaneità strumentale e di ricerca della partitura di Janáček, sottolineandone in particolare il coté sinfonico.

Ottima e coesa tutta la numerosa compagnia di canto fra cui spicca il partecipe Alexandr Petrovič Gorjančikov di Domen Križaj, la attenta Aljeja di Karolina Bengtsson e il sadico e allucinato Filka Morozov di Ian Koziara. Intensa prova anche per il Šiškov del baritono Michael Nagy. Da citare anche tutti gli altri per l’affiatamento e la grande professionalità: AJ Glueckert, Michael McCown, Barnaby Rea, Andrew Kim, Stephan Bootz, Leo Jaewon Jung, Istvan Balota, Bianca Tognocchi, Kudaibergen Abildin, Iain MacNeil, Dietrich Volle, Rastislav Lalinský, Otakar Souček, Madeline Ferricks-Rosevear.

Applausi convinti nel finale.

Raffaello Malesci (Giovedì 27 Marzo 2025)