Recensioni - Opera

Amburgo: una Lulu antinaturalistica alla Staatsoper

Ripresa dell’opera-testamento di Alban Berg nell’allestimento firmato da Kent Nagano Christoph Marthaler

Lulu di Alban Berg appartiene al gruppo dei capolavori incompiuti, in compagnia di titoli quali Turandot, Kovancina, Les Contes d’Hoffmann. Infatti, dopo aver completato tutta la musica ed orchestrati i primi due atti, Berg sospese il lavoro per dedicarsi alla composizione del Concerto per violino e orchestra, che terminò poco prima di contrarre un’infezione che lo condusse ad una morte improvvisa. Il terzo atto quindi, seppur musicalmente compiuto, non fu mai orchestrato se non per alcune battute confluite nella Lulu suite. Circa 40 anni dopo, ovvero negli anni’70 del secolo scorso il musicologo Frederich Cerha pubblicò un’orchestrazione del terzo atto cercando di mantenersi il più fedele possibile alle intenzioni di Berg. Da allora Lulu viene eseguita quasi sempre seguendo quella versione, che però rimane una delle possibili soluzioni di una questione destinata a rimanere aperta.

In occasione dell’allestimento che debuttò alla Staatsoper di Amburgo nel 2017 e ripreso in questi giorni, il direttore Kent Nagano ed il regista Christoph Marthaler optarono per una soluzione radicale: eseguire solo la musica scritta da Berg, ovvero il terzo atto, seguendo la cosiddetta “particell” -una sorta di estensione della versione per canto e pianoforte- fatta eccezione per il breve inciso orchestrale, ed aggiungendo il concerto per violino orchestra, idealmente considerato come parte integrante del progetto Lulu, come sorta di epilogo dopo la morte della protagonista.
Una scelta rigorosa, di cui forse la prima parte del terzo atto sembra un po’ soffrire, ma che nella seconda, complice anche la regia, ne amplifica ulteriormente la potenza drammatica; per non parlare della splendida scena mimica costruita sulle note del concerto, che, anche se arriva dopo quasi 4 ore, da sola vale lo spettacolo.

La regia di Christoph Marthaler (scene e costumi di Anna Viebrock) è quanto di più antinaturalistico si possa immaginare. Il primo atto è ambientato in una sorta di teatro-circo in cui i personaggi agiscono spesso come marionette, mosse da un improbabile direttore di scena che funge da factotum. Tutto diventa teatro, compresa la morte del primo marito di Lulu che entra direttamente in scena senza bussare e si schianta sul palcoscenico del teatrino che si trova sul fondale. Teatrino che costituisce l’unico elemento ricorrente nei tre atti. Il secondo infatti è ambientato in un interno borghese in cui domina un’atmosfera surreale: un cameriere gira apparentemente senza meta, mentre i vari personaggi salgono e scendono dalla scala posta sul fondo. Nel terzo atto, ambientato in una sorta di cafè chantant, il piccolo teatrino torna elemento centrale dell’azione.
Fondamentale è anche la presenza in scena di quattro attrici, la cui figura è ispirata alle Alfred Jackson Girls, un gruppo di ballerine di inizio’900, le cui coreografia le facevano sembrare più degli automi che delle donne. Figure femminili spersonalizzate, il cui legame con Lulu, donna di cui tutti si approfittano, è fortissimo. Ed infatti nel corso dello spettacolo diventano una sorta di doppio della protagonista. La stessa musica che nel secondo atto dovrebbe servire per la proiezione del film che narra delle incarcerazione di Lulu, viene in realtà utilizzata per una coreografia quasi meccanica in cui queste donne vengono mosse come oggetti. Le ritroveremo quindi fragili, indifese, al suo fianco nella toccante pantomima finale, durante il concerto per violino, a rappresentare idealmente le donne sfruttate e vittima di soprusi.

Ma il vero motivo di interesse di questo spettacolo è l’aspetto musicale, a partire dalla concertazione estremamente analitica ma ricca di espressività di Kent Nagano, complice l’orchestra della Staatsoper che crea un capolavoro di luminosità e colori. L’attenta gestione delle dinamiche ed il perfetto equilibrio tra le singole sezioni consentono che ogni passaggio dell’articolata partitura sia perfettamente riconoscibile in un fluire costante e senza soluzione di continuità.
Eccellente, sia vocalmente che scenicamente, il cast, dominato dall’inquietante e austera contessa di una straordinaria Anne Sophie Von Otter. Nel ruolo del titolo Mojca Erdman sostituiva Barbara Hannigan. Il soprano tedesco si è ben disimpegnato, sfoggiando un’ampia estensione vocale che le ha consentito di costruire un personaggio credibile e drammaticamente convincente. Autorevole ed incisivo il Dr. Schön di Jochen Schmeckenbecker, mentre il bravissimo Sergej Leiferkus è uno Schigolch dai tratti sureali ma mai sopra le righe. Ottimo anche il versante tenorile con il Pittore di Peter Lodahl e l’Alwa di Charles Workmann, mentre le figure dello studente e dell’atleta erano efficacemente interpretate da Marta Swirerska e Ivan Ludlow.
Da segnalare anche le interpretazioni di Bendix Dethleffsen, la pianista e Veronika Eberle, la violinista.
Uno spettacolo non facile, di cui in qualche passaggio forse si percepisce la lunghezza, ma che alla fine ripaga in pieno e che il pubblico ha salutato con applausi convinti.