Altra grande prova per il soprano russo affiancata dal Calaf di Yusif Eyvazov nel favolistico allestimento di Franco Zeffirelli
Ritorna Turandot in Arena, questa volta con un allestimento completo, ovvero la sfavillante e favolistica messa in scena di Franco Zeffirelli risalente al 2010, già ripresa altre volte.
Nessuna routine tuttavia grazie al cast stellare proposto anche quest’anno. Un ritorno e una riconferma per la coppia per antonomasia del panorama lirico internazionale: Anna Netrebko e Yusif Eyvazov.
Indubbiamente Anna Netrebko si impone come “La Turandot” di questi anni: linea di canto perfetta, acuti smaglianti e immacolati, centro importante e sostenuto, passaggi superati con disinvoltura senza alcun sforzo apparente, recitazione convincente, sonorità torrenziale anche nelle ampiezze areniane. Non serve aggiungere altro, una prova memorabile.
Yusif Eyvazov ripropone il suo Calaf baldanzoso e stentoreo, dall’ottimo volume e giocato su suoni aperti e ficcanti. Il timbro particolare del tenore azero si impone grazie ad una impostazione tecnica molto personale che però risulta sempre convincente. Grande successo anche per lui con il bis del “Nessun Dorma” ottimamente eseguito.
Maria Teresa Leva disegna una Liù dalla buona linea di canto con ottime salite agli acuti anche se andrebbe migliorato il carisma scenico, al suo fianco il glorioso Ferruccio Furlanetto interpreta Timur. Ottime le tre maschere che ben si destreggiano sia vocalmente che scenicamente: Gëzim Myshketa, Matteo Mezzaro e Riccardo Rodos. Sempre preciso Carlo Bosi come Altoum.
Classica e sostanzialmente appropriata la messa in scena di Franco Zeffirelli, ripresa con precisione e puntualità dal team areniano. L’allestimento divide in due il mondo: da una parte la “città dei mortali” abitata da un popolo cencioso e dall’altra la “città proibita”, che si rivela all’apertura del grande muro che la divide dalla plebe. In essa un trionfo di cineserie, quasi la proiezione visiva di uno stereotipo orientale molto in voga fra fine settecento e tutto l’ottocento: pagode, costumi sfavillanti, stendardi dorati e un tripudio di ventagli. I costumi sono di Emi Wada.
Zeffirelli, come sempre, vince con l’accuratezza e il rigore prospettico della scenografia, che regala sempre quanto promette, ovvero una festa per gli occhi e la grandiosità di un allestimento popolare a cui si perdonano le inevitabili scivolate nell’eccesso e nel kitsch. A ciò dobbiamo comunque aggiungere una maggiore attenzione rispetto al solito alla gestione delle masse, meno confusa che in altri allestimenti areniani del maestro fiorentino.
Perciò da una parte troviamo il popolo posto quasi sempre a proscenio in modo ordinato, dall’altra una rigorosa disposizione geometrica per la città imperiale, dove prevale l’immobilità e pertanto anche l’ordine, l’intelligibilità della storia e la chiarezza scenica. Certo non mancano alcune cadute di gusto dovute ad un eccesso illustrativo e didascalico, come l’inutile e poco visibile “cote” di Putin-Pao, le teste mozze sopra le picche, i dragoni cinesi di dubbio gusto, il raddoppio assolutamente fuorviante dei tre ministri sostituiti da ballerini sventaglianti durante la grande scena d’insieme del secondo atto.
Certo se l’intento è quello di rendere la scena sempre colorata e movimentata, Zeffirelli ci riesce magistralmente.
Ottimo il coro dell’Arena, completamente a suo agio in un repertorio che possiede ormai perfettamente date le numerose riprese dell’opera quasi ogni estate. Puntuale la direzione di Marco Armiliato.
Grande successo per tutti gli interpreti. Ovazioni per Netrebko e Eyvazov.
Raffaello Malesci (4 Agosto 2022)