Recensioni - Opera

Arena: Nabucco fra dittatura e campo di concentramento

Cupo allestimento per la seconda opera icona in Arena dopo Aida

Nabucco negli ultimi decenni è assurta, dopo Aida, a seconda opera iconica per l’anfiteatro veronese. Infatti le costanti riprese ad intervalli sempre più serrati testimoniano il solido affetto del pubblico, soprattutto straniero, verso questo drammone lirico del Verdi giovanile.

In questa estate post pandemia non poteva dunque mancare un nuovo allestimento, adattato alle circostanze, dell’opera che ha il suo culmine popolare nel celeberrimo e - ahimè - abusato coro del “Va’ Pensiero”. Il team creativo della Fondazione Arena, che ha curato tutti gli allestimenti principalmente affidandosi alle proiezioni su grand led wall e disponendo il coro immobile sulle gradinate a sinistra dell’orchestra, sceglie questa volta un’ambientazione non classica, immaginando l’opera in un cupo e grigio contesto di dittatura militare.

Scelta sicuramente azzeccata e innovativa rispetto alle immagini puramente decorative che hanno caratterizzato altri allestimenti di questa estate 2021 come Aida, Traviata e Turandot. La scena infatti si svolge in quello che si intuisce essere un campo di concentramento ove impera il terrore di una sanguinaria dittatura. Il tutto perciò è condito di abbondanti inferiate, fili spinati e lampioni stile Auschwitz, con sullo sfondo immagini di prigioni e grandi strutture di grigio cemento. Scelta non del tutto peregrina in ispecie per alcune intuizioni azzeccate come l’idea di rimandare al celeberrimo film “Olimpia” di Leni Riefenstahl, una delle registe favorite da Adolf Hitler negli anni 30 del novecento, all’inizio del secondo atto. Il tutto vanificato purtroppo dalla frettolosità con cui è stato montato l’allestimento, con movimenti inutili, vistose incongruenze con il libretto, utilizzo eccessivo e non opportuno dei figuranti, ma soprattutto una palese confusione nella gestione delle masse. Anche il riferimento nel finale ai forni crematori risultava infatti confuso e non chiaramente sottolineato.

Diversi spunti pregevoli dunque probabilmente non completamente sviluppati a causa delle circostanze eccezionali in cui è stato montato lo spettacolo. Peccato.

Dal punto di vista vocale si conferma l’ottima e accurata scelta delle voci anche per l’ultima replica in programma il 1° settembre. Infatti tutto il cast, seppur non eccelso, si faceva notare per l’ottima professionalità e preparazione. Nabucco era il baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat, dotato di una splendida voce di grande omogeneità in tutti i registri, si è ben distinto cantando con impegno tutta la parte. Certo la sola voce non basta, l’interprete alla lunga risulta monocorde ed è ancora ben lungi dal coinvolgere, dall’essere personaggio. Al suo fianco Anna Pirozzi era un’Abigaille dalla volitiva e aggressiva presenza, ben a fuoco in tutto il registro, il soprano si distingue per voce impostata e graffiante anche se tende a eccedere nel caricare la parte drammatica sentendosi probabilmente costretta a forzare nell’ampio contesto areniano. Rafal Siwek delinea un Zaccaria corretto e dalla bella linea di canto, la cavata però non ammalia così come non si impone la potenza ieratica del personaggio. Annalisa Stroppa ci regala una Fenena sonora e ben impostata. Riccardo Rodos controlla bene la parte pur difettando di un vero accento verdiano. A completare il cast gli ottimi Carlo Bosi, Elena Borin e Nicolò Ceriani. Immancabile il bis del “Va’ Pensiero”, anche se non richiesto dal pubblico.

Tutto bene dunque? In parte sì, ma qualcosa mancava: purtroppo la vera alchimia delle grandi serate non si è creata. D’altra parte l’Arena, più che un Festival nella sua vera accezione e cioè un cantiere di approfondimento e novità, così come l’avevano pensato Max Reinhardt e Hugo von Hofmannsthal, i fondatori all’inizio del novecento del primo Festival quello di Salisburgo; propone un teatro di repertorio con ottime voci che si alternano di frequente. Grandi professionisti certo, ma ognuno canta un poco per conto proprio e quando non si crea una naturale armonia questo si sente e il tutto, anche se ben fatto, rimane affidato ad una solida e un poco turistica routine.

Daniel Oren dirigeva l’orchestra dell’Arena di Verona. Presenza ormai più che ventennale la sua sul podio areniano si dimostra direttore di grande mestiere nel tenere perfettamente insieme la grande compagine, oltretutto con il coro così decentrato. Quest’anno Oren imposta un Nabucco dai tempi rapidissimi, quasi garibaldini, senza mai perdere il fuoco sul dettato orchestrale verdiano. Una garanzia in ogni circostanza.

Folto pubblico anche per l’ultima rappresentazione. Molti e meritati applausi.

R. Malesci (01 Settembre 2021)