Fotografia di una stanza è l’ultimo lavoro del drammaturgo Cesare Lievi che lo ha presentato al Teatro S. Chiara di Brescia in pr...
Fotografia di una stanza è l’ultimo lavoro del drammaturgo Cesare Lievi che lo ha presentato al Teatro S. Chiara di Brescia in prima italiana anche nella veste di regista.
Il percorso del Lievi drammaturgo si è sempre svolto all’interno di ambienti chiusi, quasi claustrofobici, intesi più come spazi mentali che come spazi reali; basta infatti pensare alla “scatola nera” che ha contraddistinto testi quali “Tra gli infiniti punti di un segmento” o “Il giorno delle parole degli altri”, ma anche alla piscina di “Tempi d’amore”.
Al poeta non interessa più di tanto il mondo che ci sta intorno ma la sua attenzione si concentra maggiormente sulla psicologia e sulle emozioni dei suoi personaggi.
In una stanza creata dallo scenografo Josef Frommwieser ed illuminata a piena luce dalla sapienza di Gigi Saccomandi, si dipana il dialogo tra Giuseppe, tappezziere italiano ed il suo assistente Dragos, di origini slave. La trama in realtà non esiste, ed anche la parentesi centrale in cui Dragos si trova faccia a faccia con la padrona di casa in realtà si rivela una fantasia, anche se non si capisce di chi dei due.
I temi che si dipanano sono la solitudine, l’incapacità di relazionarsi, indipendente questa dalla nazionalità, il sentirsi comunque fuori posto in una società sempre più chiusa, come chiusa e limitata è la stanza in cui tutto accade; quasi la vita passasse da una stanza all’altra, da un ambiente all’altro, senza possibilità di aperture verso l’esterno.
Lievi, come è nel suo stile, compie un’operazione molto raffinata ed intellettuale, caratteristica che costituisce sia il pregio che il difetto di questo spettacolo. La sensazione che si ha infatti è quella che gli attori agiscano nell’ambito di un tecnicismo esasperato, cesellato nei minimi particolari, che alla fine però blocca la loro la partecipazione emotiva alle vicende che interpretano.
È vero che il teatro contemporaneo è sempre più un teatro a tesi che si basa su silenzi e scarsa comunicazione verbale, però il rischio che questo si trasformi in intellettualistica freddezza è troppo spesso in agguato.
Efficaci ed in parte i tre attori: magistrale il Giuseppe di Stefano Santospago; di grande livello la prova di Alessandro Averone nel ruolo di Dragos; estremamente valida anche se forse un po’ troppo “di testa” la prova di Carla Chiarelli nel ruolo della signora.
Un allestimento nel complesso interessante e meritevole da parte del nostro stabile che tenta comunque di sopperire alla cronica mancanza di drammaturgia contemporanea nel nostro paese.
Davide Cornacchione 25/01/2005