Recensioni - Opera

BRESCIA: Il duro "mestiere" di Volpone

Fedele alla sua linea di proporre testi classici per il grande pubblico, dopo il shakespeariano Re Lear (con la parentesi dedicata...

Fedele alla sua linea di proporre testi classici per il grande pubblico, dopo il shakespeariano Re Lear (con la parentesi dedicata alle “Variazioni enigmatiche” di Schmitt) e prima del ”Bugiardo” goldoniano annunciato per la prossima stagione, la Compagnia Mauri-Sturno ci ha offerto una riproposta del Volpone di Ben Johnson.
Il testo, capolavoro del drammaturgo inglese coevo di Shakespeare, è decisamente noto, e tratta di una visione allegorico – pessimistica del mondo, in cui tutti gli uomini vengono presentati con il nome di animali, perlopiù rapaci o comunque negativi e questo non a caso, infatti la vicenda narrata tratta di inganni, raggiri, prepotenze e sopraffazioni.
Glauco Mauri, nel duplice ruolo di protagonista e regista, sceglie una lettura decisamente classica e fortemente estetizzante, con un impianto scenico basato su due tende disposte a cerchio che, a seconda della loro posizione, o fungono da sipario o delimitano i vari ambienti, tra cui il vero fulcro dell’azione, ovvero al camera da letto di Volpone caratterizzata dalla presenza massiccia di un letto-forziere all’interno del quale sono celati tutti i tesori.
Le scene ed i costumi di Alessandro Camera sono realizzati con grande sfarzo e colori molto accesi, questo anche per assecondare la linea a tratti surreale scelta da Mauri: infatti lo spettacolo sfocia spesso in alcuni momenti musicali, quasi cabarettistici (complici le riuscite musiche di Arturo Anneghino) in cui gli interpreti si divertono ad ammiccare al pubblico ed a giocare del loro ruolo di attori.
Eccezion fatta per questo piccolo espediente il resto dello spettacolo si muove su binari abbastanza statici e prevedibili, senza particolari trovate ma basandosi tutto sulle prove degli attori che non sempre peraltro si rivelano all’altezza della situazione.
Infatti se Mauri riesce ancora a costruire un personaggio efficace, nonostante uno stile recitativo che ormai risente un po’ degli anni e che lo porta nel finale a risultare più enfatico che disperato, e se Roberto Sturno, nei panni del servo Mosca, rivela per l’ennesima volta di essere uno dei più straordinari attori che il panorama italiano offre attualmente, tanto che lo si vorrebbe vedere impegnato anche in altri lavori che ne risaltino ancora di più le doti, per gli altri interpreti non sempre si può dire lo stesso.
Gianni de Lellis, pur risultando efficace, delinea un Corbaccio che rischia di scadere nella solita macchietta; Massimo Loreto sembra non tenere fino in fondo il personaggio di Voltore, soprattutto nella lunga arringa del processo in cui il ritmo spesso e volentieri cade rendendo la scena, ma questo non solo per causa sua, lenta e sfilacciata; Alarico Salaroli è un Corvino corretto e poco più; la Celia di Marina Kazankova offre le sue forme prosperose ma non una recitazione altrettanto seducente, complice anche una dizione farraginosa; Sergio Raimondi è un anonimo Bonario e Felice Leveratto un Giudice poco incisivo.
In sostanza uno spettacolo dall’impianto solido che offre una prova di grande professionalità, ma che, nonostante in più occasioni tenti di catturare l’attenzione del pubblico ricorrendo anche a battutine e gag quasi da avanspettacolo, spesso perde il ritmo alternando così momenti riusciti ad altri che fanno venire voglia di guardare l’orologio.
Al termine delle due ore e mezza, un teatro gremito ha tributato applausi calorosi a tutta la compagnia ed in particolare ai due protagonisti.
D. Cor. 23/02/2003