Recensioni - Opera

BRESCIA: Luci ed ombre sui "Giudici" di Gabrielli

Il CTB, al suo pubblico, ha offerto questa settimana la splendida opportunità di veder rappresentate due interessanti riflessioni ...

Il CTB, al suo pubblico, ha offerto questa settimana la splendida opportunità di veder rappresentate due interessanti riflessioni sul tema della giustizia. Gli elementi comuni tra “Erano tutti miei figli” di Arthur Miller e “Giudici” di Renato Gabrielli probabilmente terminano qui, e non poteva accadere diversamente. Tanto si respira nei dialoghi rarefatti del primo la maestosa estensione dei territori americani; tanto la germinante scrittura del secondo traduce fedelmente la ridondante e vacua verbosità della classe media italiana: una lingua sempre più incastonata da quelle splendenti gemme d’alta bigiotteria che sono i termini inglesi, ormai cooptati dal misero vocabolario degli imprenditori della ‘new economy’.
L’opera di Gabrielli, rifacendosi al nucleo drammaturgico delle Vespe di Aristofane, porta in scena una versione surreale, ma non troppo, della nostra società contemporanea e al termine resta, in chi osserva, il tenace sospetto che in fondo oggi siamo un po’ tutti gli inconsapevoli protagonisti del sogno allucinato di un’addetta alla ‘new portinery’. La materia che coraggiosamente Gabrielli ha deciso di trattare è per l’Italia ancora una ferita aperta, il controverso rapporto che la nostra classe dirigente ha con i tribunali e i giudici continua ad essere il tema dominante degli scontri tra i poli della nostra politica. Il rischio era eccedere in cronachismo, oppure assumere una visione partigiana. Gabrielli ha saggiamente preferito spostare l’attenzione sulla ‘percezione che di Tangentopoli ha la società italiana’ pur non rinunciando mai, nella narrazione, a chiarire il proprio punto di vista.

Le prime due parti dello spettacolo viaggiano sulle ali di una grande capacità d’invenzione linguistica che tinge le battute di colori psichedelici. La visione dell’autore si insinua con molta abilità nelle pieghe dei dialoghi. Ad un inizio assai brillante, zeppo di parole cui il pubblico fa da contrappunto con sonore risate, segue una parte centrale che smorzati i toni surrealistici costringe gli spettatori a osservarsi parodiati nei tic insulsi dei personaggi - chi apprezza la sana funzione dell’autoironia a questo punto ha mutato le grasse risate in sarcastici sorrisi di autocommiserazione. Come non riconoscere nella psicologa Canga la summa di tanti santoni, maghi, ‘personal trainer’ che ci spacciano i più diversi metodi spirituali e scientifici per colmare il vuoto pneumatico delle nostre anime e delle nostre menti?
L’azione si svolge a casa del giudice Filippo Cleoni (Giuseppe Battiston) fatto sospendere dall’incarico di Pubblico Ministero e dichiarato pazzo dal cognato Barnaba Belloni da Buccinasco (Leonardo De Colle) perché non concluda l’inchiesta che porterebbe alla chiusura della B.A.H impresa da lui diretta con religiosa abnegazione. Qui vivono, oltre ai suddetti, anche Maria Mariani (Sandra Toffolatti) incaricata della ‘mission di sorveglianza’, per impedire i frequenti tentativi di fuga del prigioniero, l’attore polacco Piotr Dogowicz (Giovanni Battista Storti) generosamente assunto – benché straniero – in qualità di cane da guardia col nome di Dogek, Saverio Spaccia (Sergio Mascherpa) pubblicitario creativo dell’azienda, Federica Cleoni (Elena Callegari) insegnante di filosofia ormai totalmente disillusa del suo compito educativo, moglie di Barnaba e sorella di Filippo. Irrompe nell’esistenza carceraria del protagonista Isabella Canga (Francesca Caratozzolo) psicologa d’avanguardia che con l’efficace metodo dell’Infinite Jumping e con la potente terapia d’urto riuscirà a liberarlo dall’ossessionante malattia di “far rispettare la legge anche ai ricchi”.
La vicenda termina così nella catartica celebrazione di un processo domestico ai danni del debole della comunità, il cane, che decreterà l’accettazione da parte di Filippo di uno stato di immutabile ingiustizia. La scena di Gigi Mattiazzi è un praticabile che apre all’azione spazi poliedrici, gli attori scivolano, si insinuano, si elevano su questa parete inclinata e fratta da aperture da cui ogni tanto spuntano solo con un arto o con i loro volti come topolini golosi tra i buchi del groviera. Quella che parrebbe la più statica delle scenografie viene invece resa assai vitale dall’uso che ne sanno fare gli attori e dai colori che le vengono proiettati addosso dalle efficaci luci dello stesso Mattiazzi.

In sala si è percepito il grande affiatamento della compagnia sia tra i suoi elementi sia nel rapporto dinamico con lo spazio scenico sia, soprattutto, con un testo che pare appartenere e aderire ai singoli interpreti come una seconda pelle, consentendo la piena espressione delle loro qualità. Gabrielli dimostra così di far parte a pieno diritto della poco nutrita schiera di autori in grado di scrivere per una scena reale e non per un ‘Teatro di Marte’. Tuttavia la parte conclusiva del testo forse per un eccessivo desiderio affabulatorio perde di mordente e genera un po’ di stanchezza; soprattutto il monologo finale di Federica Cleoni, per quanto ineccepibile dal punto di vista contenutistico, appare ridondante. Nella scrittura teatrale la difficoltà maggiore consiste proprio nel permeare delle proprie idee battute e dialoghi senza però arrivare mai ad esporle in forma di sillogismi. In questo ‘Giudici’ pecca proprio nel finale e l’espediente drammaturgico dell’arringa non è sufficiente a sostenere l’inutile verbosità di quel discorso che anzi assume i connotati di un riassunto tardivo del tema dominante dell’opera.

Nelle sue note di regia Gabrielli parla dei protagonisti definendoli nient’altro che ‘maschere, tipi contemporanei’ eppure in queste strampalate creature c’è molto di umano e pur non potendo parlare di personaggi a tutto tondo, sono specialmente Spaccia e Belloni, nel momento in cui sono colti nelle loro perverse debolezze – amore viscerale, quasi mistico per le droghe di ogni foggia il primo, passione ossessiva e mal celata per il cane-uomo il secondo – a mostrare una profondità inattesa che spiazza la semplicistica distinzione tra buoni e cattivi cui si vorrebbe cedere. In questo ho trovato Miller e Gabrielli straordinariamente vicini: in molti vorrebbero poter liquidare le questioni legate alla giustizia trovando colpevoli da bollare e da espellere dalla società pensando così di riuscire a salvaguardare la propria presunta innocenza da un possibile contagio. La realtà si dimostra assai più variegata evidenziando di quante debolezze tutti siamo vittime, e quanto esse si facciano evidenti nel momento in cui ci ergiamo a severi giudici del comportamento altrui.
In entrambi i testi c’è nel protagonista il duro riconoscimento e l’ammissione della propria partecipazione a questa imperfezione, da sempre connaturata all’uomo. Entrambi i testi terminano con una morte: la presa di consapevolezza trasforma senza possibilità di ritorno la percezione della realtà in cui si vive. L’uccisione di Dogek, in precedenza protagonista del momento più lirico della pièce – benché parodia di tanti luoghi comuni sui teatranti dell’Est – appare come il necessario sacrificio di idealismo e innocenza infantili quali prodromi inevitabili del successivo ingresso nel mondo adulto. Ma davvero crescere significa questo? Davvero l’abbrutimento in cui siamo precipitati tutti non offre alternative? I personaggi nel finale rinunciano a trarre loro le conclusioni, così resta allo spettatore stabilire se sia il caso di lasciarsi annichilire o iniziare, da veri adulti, ad assumersi le responsabilità sociali delle proprie imperfette azioni. L’aspetto più difficilmente esplicabile della realtà di oggi, come acutamente sostiene Gabrielli a conclusione delle sue note di regia, è che “viviamo in una società nella quale va perdendosi la capacità di essere giudici di se stessi”.

Consiglio vivamente di visitare il sito internet dello spettacolo perché, offrendo informazioni sull’allestimento, evidenzia la cura e la creatività che hanno investito l’intero progetto. L’indirizzo è: http:\\www.giudicando.com

Elisa Rocca (3 aprile 2002)