Recensioni - Opera

Bentornati Foscari!

Trionfale successo della desueta partitura giovanile di Verdi al Teatro Municipale di Piacenza

Gli anni dal 1843 al 1850, i cosiddetti “Anni di galera”, costituiscono per Giuseppe Verdi un periodo di grande sperimentazione in cui, dopo il trionfale successo di Nabucco, affronterà una serie di opere generalmente considerate minori che però gli consentiranno di affinare la sua tecnica compositiva e di prepararsi ai grandi capolavori della maturità a partire da Rigoletto.
In questo lasso di tempo si susseguono 12 nuovi titoli oltre a Jérusalem, rifacimento in francese dei precedenti Lombardi alla prima Crociata, alcuni dei quali faticano tuttora ad affermarsi -celebre la frase che si attribuisce a Verdi su Alzira: “Questa è proprio brutta!”- mentre altri invece sono riusciti a conquistare un posto stabile all’interno del repertorio, quali ad esempio Ernani e Macbeth-.

Concepita tra il 1843 ed il ’44, I due Foscari è un’opera che, nonostante una drammaturgia parecchio statica, vanta più di un motivo di interesse, sia per alcune valide soluzioni dal punto di vista musicale, soprattutto legate alla figura del Doge, sia perché per la prima volta Verdi adottò, seppur in forma embrionale, un’idea di Leitmotive. Ogni volta che uno dei protagonisti entra in scena è infatti annunciato da un tema musicale che lo identifica, che però, a differenza di quanto adotterà Wagner, non viene sviluppato in chiave emotivo-espressiva all’interno della partitura, ma viene ogni volta riproposto in modo assolutamente identico. Una soluzione che Verdi non riprese più per parecchi anni ma che nel caso specifico è meritevole di attenzione.

È quindi assai lodevole che il Teatro Municipale di Piacenza, in coproduzione con il Teatro Comunale di Modena abbia deciso di riproporre questo titolo all’interno della sua stagione e di affidarlo ad un ensemble di interpreti eccellenti, protagonisti di un’esecuzione travolgente.
Matteo Beltrami, alla testa dell’ottima Orchestra Toscanini e del valido Coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati, ha colto perfettamente lo spirito del primo Verdi, imprimendo grande tensione drammatica alla partitura ma allo stesso tempo evitando quegli eccessi, tra cui il vituperato effetto “zum-pa-pa” su cui spesso insistono i detrattori delle opere giovanili del compositore bussetano. Al contrario Beltrami ha dipanato la narrazione con grande efficacia mettendo in risalto sia i passaggi più eroici che quelli più lirici.
Eccellente il cast a partire dal magnifico Francesco Foscari di Luca Salsi. Il baritono parmense si conferma voce verdiana di riferimento scolpendo una figura tragica e tormentata dall’impossibilità di agire per poter salvare il figlio dall’esilio nonostante l’autorità conferita dalla sua carica di Doge. Un timbro corposo ma di grande morbidezza ed un fraseggio raffinato e ricco di sfumature hanno contribuito alla creazione di un personaggio di grande intensità che al termine di “Dunque è questa l’iniqua mercede” è stato accolto da un uragano di applausi ricambiati con il bis dell’aria.
Ingaggiata in prossimità del debutto in sostituzione dell’indisposta Marina Rebeka, Marigona Qerkezi è stata una Lucrezia dalla voce d’acciaio che ha sfoggiato un registro centrale rigoglioso ed una perfetta tenuta dei fiati che le hanno consentito sciabolate nell’acuto, raffinati pianissimi ed agilità impeccabili. Molto apprezzata anche la prova di Luciano Ganci che di Jacopo Foscari ha colto sia la componente più malinconica che quella più eroica grazie ad un fraseggio articolato e ad una disinvolta salita all’acuto.
Di pregio anche il gruppo dei comprimari su cui spiccava l’autorevole Jacopo Loredano di Antonio Di Matteo, affiancato dal Barbarigo di Marcello Nardis e dalla Pisana di Ilaria Alda Quilico.

Lo spettacolo nato nel 2008 con la regia di Joseph Franconi Lee, impostato in modo abbastanza statico e basato sostanzialmente su dei tableaux vivants che in più di un’occasione non mancavano di appagare l’occhio, grazie agli sfarzosi costumi di William Orlandi ed alle efficaci luci di Valerio Alfieri, tradiva ormai i segni del tempo. A dominare la scena, sempre di Orlandi, era un imponente cilindro ligneo che quando si apriva rivelava le stanze del Palazzo Ducale mentre quando era chiuso, ovvero la maggior parte del tempo, sacrificava gli interpreti a proscenio su una gradinata, costringendoli ad un continuo ed impacciato su e giù che, data la comprensibile preoccupazione di inciampare, soprattutto nelle scene in cui era coinvolto anche il coro, ne limitava l’azione. A ciò va aggiunto che la farraginosa scenografia richiedeva impegnativi cambi scena, a fronte peraltro di variazioni minime, che ne frammentavano la tensione drammatica, impedendo ad esempio l’accorpamento degli ultimi due atti ed inserendo inoltre due pause nel secondo e nel terzo atto. Molto lineare la regia che si limitava a coordinare entrate e uscite dei protagonisti ed a lasciare il coro immobile, fatto salvo per un balletto accompagnato dal più classico sventolio di bandiere nel terzo atto. In sostanza un’impostazione prettamente decorativa che si limitava ad illustrare la vicenda.
Trionfale al termine la risposta del pubblico che esauriva il Teatro Municipale e che ha tributato applausi entusiasti a tutti gli interpreti.