Recensioni - Opera

Berlino: Tcherniakov demitizza il Ring

Il regista russo opta per un’interpretazione estrema del ciclo wagneriano alla Staatsoper unter den Linden. Superba la direzione di Thomas Guggeis

Il Festtage 2023 della Staatsoper unter den Linden di Berlino ha visto la ripresa del Ring des Nibelungen di Richard Wagner che aveva debuttato lo scorso autunno con la regia di Dmitri Tcherniakov.
Opera monumentale, suscettibile di innumerevoli interpretazioni, il Ring ad ogni nuovo allestimento pone la questione di quale chiave di lettura scegliere, essendo ormai improponibile una messinscena pedissequa delle didascalie wagneriane con elmi, pelli di animale e tutto quanto l’apparato della mitologia nordica imporrebbe. Attualmente le strade più battute sono quelle della stilizzazione in chiave astratta alla Wieland Wagner oppure quella di un’attualizzazione in chiave contemporanea, ed è proprio in questa seconda direzione che si è mosso il regista russo, anche autore delle scenografie, affiancato dai drammaturghi Tatiana Werestchagina e Christoph Lang, e dalla costumista Elena Zaytseva.

La vicenda si svolge in epoca contemporanea in un lasso di tempo di circa 50 anni, dalla seconda metà del secolo scorso ai giorni nostri, all'interno della E.S.C.H.E. (acronimo non casuale: Esche in tedesco vuol dire frassino), un laboratorio di ricerche sul comportamento umano di cui Wotan è il direttore e gli altri dei sono i collaboratori. La vicenda prende il via dalla ribellione di Alberich durante un esperimento gestito dalle figlie del Reno, ad una delle quali ruba un anello. Le conseguenze dell'esperimento lo portano ad alterate percezioni della realtà: vede dell’oro che in realtà non c'è, crede che il casco con cui misurare gli impulsi cerebrali gli consenta di trasformarsi in drago o in rospo, assecondato in tutto questo dai nibelunghi impiegati nel laboratorio, Mime compreso. Contemporaneamente Wotan si trova a dover saldare il debito con i giganti, suoi finanziatori nell’impresa, qui raffigurati come loschi malviventi. Ovviamente il recupero dell’anello -dato che l’oro non c’è- ed il pagamento si svolgono come da copione grazia all' aiuto di Loge, qui raffigurato come una sorta di nerd con i basettoni, a rimarcare il suo essere differente rispetto agli altri dei. Dopo una prosaica discesa in ascensore nei laboratori sotterranei (ovvero il Nibelheim) e la cessione dell’anello ai giganti, il Rheingold si conclude in una sorta di convention di fronte ai soci in cui Donner e Froh si cimentano in giochi di prestigio ed in cui l'arcobaleno si materializza in un fiore che si schiude di fronte agli occhi divertiti degli astanti.

L' esperimento sul comportamento umano procede anche nelle due opere successive, infatti sia la casa di Hagen in Die Walküre che quella di Mime in Siegfried sono un ambiente all’interno delle E.S.C.H.E. separato da un vetro riflettente dalla stanza di controllo dalla quale Wotan osserva dapprima l'evoluzione dei rapporti tra Siegmund e Sieglinde e successivamente la crescita di Siegfried. Hunding è un poliziotto della sicurezza e, a rimarcare il fatto che buona parte di quello che accade è frutto di una messinscena, il duello che chiude il secondo atto in realtà non avviene: noi sentiamo solo le voci dei due contendenti che ritroviamo successivamente chiamati a rapporto da Wotan. Hunding verrà congedato mentre Siegmund sarà picchiato dalla security per aver cercato di far fuggire Sieglinde. Fuga che tenterà di favorire anche Brünnhilde ma che verrà intercettata da Wotan che per questo procederà alla punizione della figlia ribelle.

Sulla falsariga procede anche la terza giornata in cui Siegfried, esortato da una dottoressa (l'uccello del bosco) uccide Fafner, ormai ridotto a paziente psichiatrico in camicia di forza, recupera l'anello ed incontra Brünnhilde in una scena in cui la scoperta dell'amore viene capovolta e diventa ironica: i due infatti sembrano non prendere la situazione sul serio e ne ridono divertiti.
Nella Götterdämmerung la E.S.C.H.E. è evidentemente passata di mano ed i nuovi proprietari sono i due scipiti figli di papà Gunther e Gutrune, totalmente in balìa del fratellastro Hagen, che quando vedono arrivare il sempliciotto Siegfried ridono di lui. La conquista di Brünnhilde da parte di Siegfried per conto di Hagen avviene senza l’ausilio di magia, per questo la scena assume un impatto emotivo notevole, infatti  Brünnhilde non è più meravigliata perché vede un'altra persona -nello specifico Gunther- ma semplicemente perché non ritrova più il Sigfried che lei conosceva: lui è cambiato e così l’atteggiamento nei confronti di lei che, al contrario, poco prima, di fronte alla sorella Waltraute, aveva posto il suo amore per lui come elemento imprescindibile. L’eroe verrà quindi ucciso durante un torneo di basket tra i dipendenti ed al suo capezzale ci saranno tutti, compresi Erda e Wotan, che in un finale struggente resterà a vegliare il corpo al fianco di Brünnhilde.

Una lettura nel complesso interessante, sicuramente coerente, che compie però una demitizzazione radicale della storia: non c’è più posto per la magia ed anche i simboli su cui il ciclo si sorregge vengono ampiamente ridimensionati. La spada compare solo nel momento in cui Siegmund la ritrova in casa di Hunding, quindi ritorna spezzata quando Wotan la consegna a Mime (ma quando è stata rotta visto che il duello con Hunding non è mai realmente avvenuto?) e, sempre spezzata, verrà conficcata nel corpo di Fafner, dato che Siegfried durante la scena della forgiatura anziché ripararla farà tutt’altro: distruggere la casa di Mime e dare fuoco ai suoi giocattoli. La lancia appare solo nel finale di Siegfried un minuto prima che Wotan la spezzi; l’oro è frutto di fantasia; Grane è un pupazzo; il fuoco che deve proteggerne il sonno viene disegnato da Brünnhilde con un pennarello arancione sugli oggetti di scena. Soluzioni interessanti in cui il konzept sembra però intraprendere percorsi differenti rispetto a quanto dovrebbe accadere in scena, venendo a volte a mancare quei momenti icastici in cui la regia riesce a toccare il cuore del dramma. Ciò non toglie che a fronte di soluzioni che possono destare qualche perplessità -un Rheingold ad esempio molto statico che per quasi la metà si svolge con gli interpreti seduti attorno ad un tavolo o il finale del Siegfried in cui il tema del risveglio di Brünnhilde è fonte nei due di gustose risate- ve ne sono altre che lasciano il segno. L’incontro tra Wotan e Alberich in Siegfried che implacabilmente ce li mostra invecchiati ma in perenne movimento all’interno dei vari ambienti della E.S.C.H.E. oppure nella Götterdämmerung quello tra Hagen ed il padre rimangono scolpiti nella memoria, come anche il bellissimo e già citato finale che, dopo la morte di Siegfried, vede Erda proporre a Brünnhilde di restare nel centro di ricerca ma lei rifiuta e la piantina della struttura che per quattro giornate ha campeggiato sul sipario si dissolve ad indicare che tutto si è concluso.

Se l’aspetto visivo, pur con qualche riserva, ha comunque convinto, nessun dubbio invece sul versante musicale che è stato di altissimo livello.
Thomas Guggeis si trovava nel non facile compito di sostituire il previsto Daniel Barenboim di cui è assistente e da questa impresa è uscito a testa alta, grazie anche all’ottima intesa con la Staatskapelle di Berlino che questo repertorio ce l’ha nel sangue e che infatti ha suonato magnificamente. La lettura del giovane direttore ha rifuggito sonorità granitiche, anche se momenti energici non sono mancati soprattutto nella Götterdämmerung, per favorire un maggiore scavo della partitura e delineare sia psicologicamente che emotivamente i vari personaggi, inserendosi in quella tradizione interpretativa più intimista che dopo Krauss e Karajan ha condotto il Ring ad una dimensione meno mitica e più umana. La narrazione è stata sempre tesa e coinvolgente ma allo stesso tempo attenta alle dinamiche e soprattutto a non prevaricare sulle voci, mantenendo sempre un perfetto equilibrio tra buca e palco, complice anche la superba acustica della Staatsoper.

Il cast ha consentito di ascoltare alcuni tra i massimi interpreti wagneriani attualmente in circolazione a partire dal superlativo Wotan di Michael Volle, vero punto di riferimento di quest’edizione, che ha cesellato ogni singola nota, immedesimandosi in tutto il caleidoscopio di sentimenti che caratterizzano il padre degli dei: dalla protervia, al malcontento, all’amore paterno, all’amarezza. Al suo fianco sul podio, uno e trino, Mika Kares, che, forte di un timbro di una linea di canto impeccabili, ha scolpito da vero fuoriclasse i tre antieroi Fasolt, Hunding e Hagen. Ottimi anche i due Nibelunghi: Jochen Schmeckenbecker è stato un Alberich incisivo sia scenicamente che vocalmente mentre Stephan Rügamer ha delineato un Mime subdolo ma sempre sobrio, evitando qualsiasi elemento caricaturale. Siegfried, che la regia ha voluto come una sorta di bambinone un po’ sciocco, è stato interpretato da Andreas Schager che ha sfoggiato un timbro luminoso, acuti svettanti e tutta la sovrumana resistenza vocale che questo ruolo possiede, mentre Anja Kampe è stata un’eccellente ed intensa Brünnhilde, pur mostrando più di una screziatura nel registro acuto. La coppia dei Wälsidi ha visto primeggiare la straordinaria Sieglinde di Vida Miknevičiūtė, una delle voci più belle ascoltate in tutto il Ring, mentre Robert Watson è stato un Siegmund a tratti opaco. Anna Kissjiudit è stata una credibile Erda, parsa più a suo agio in Siegfried che in Rheingold, mentre Rolando Villazon ha dato vita ad un Loge scenicamente molto credibile ma vocalmente discontinuo. Rimarchevoli le prestazioni di Claudia Mahnke (Fricka), Peter Rose (Fafner), Violeta Urmana (Waltraute), Lauri Vasar (Gunther) e Mandy Fredrich (Gutrune).
Successo incondizionato al termine di tutte e quattro le rappresentazioni con ovazioni e standing ovations per Guggeis.

4,5,8,10 aprile 2023