Recensioni - Opera

Bologna: Bohème, lo straordinario testamento di Graham Vick

Al Teatro Comunale torna il capolavoro pucciniano nell'allestimento che il regista inglese aveva ripreso poche settimane prima della sua scomparsa

Un lenzuolo bianco, buttato addosso ad un corpo inerte, nel freddo che morde l’aria. Una natura morta. Attorno, un bidone della spazzatura, i resti di una cucina smontata, piastrelle consumate dal tempo, tragico arredamento alla desolazione di una soffitta ai margini del mondo. Nulla è più, nemmeno il pietoso conforto di una presenza a vegliare il corpo. È Mimì, era Mimì. Ancora calda ma già altrove, risucchiata dalle ombre. L’hanno abbandonata fuggendo, i suoi compagni di scorribande amorose, di confidenze struggenti e di inattese tenerezze, senza far in tempo a servirle quel “cordiale” in polvere bianca che Musetta scalda in un cucchiaino, alla fiamma di un gas arrugginito. Divorati dalla paura, dal senso di colpa, dall’incapacità di crescere e guardare in faccia la morte, l’unico volto a cui non bastano i sogni e gli alibi per sfuggire. Bologna, 11 agosto scorso.

Ultima rappresentazione di quella Bohème riproposta per l’estate del Teatro Comunale che la regia di Graham Vick già nel 2018 aveva scosso come uno straccio al vento. Via la polvere, le incrostazioni, le maniere. Fuori il sangue, il torbido, l’audace. Il suo canto del cigno. Non ci era possibile evitare di guardare a quella salma che così poco aveva di teatrale, a quella fine simile tutte le fini dei senza nome, senza pensare al suo artefice. Aveva dato le ultime indicazioni, maniacale come sempre, instancabile cesellatore di verità nascoste nelle pieghe della pagina, prima di svanire in un istante, ingoiato da quel mostro chiamato Covid 19. In un’intervista rilasciata solo qualche settimana prima, Vick spiegava la scelta di non chiarire scenicamente la morte di Mimì. “D’altronde, oggi non si sa di cosa si muore. La medicina ci consente di lavorare, di vivere bene fino all’ultimo e poi zac, non ci siamo più”. Vengono i brividi a ripercorrere oggi queste parole. Era facile, diremmo inevitabile, dopo aver assistito ad una sua produzione, diventare suoi seguaci, attendere le regie successive come puntuali occasioni per pensare e ripensare un’opera.

Lo scorso 17 luglio, la scomparsa del regista britannico aveva lasciato di sasso il mondo musicale che il prossimo ottobre lo avrebbe atteso nella fucina del Teatro Farnese a Parma per allestire il suo “Un ballo in maschera” al Festival Verdi. Aveva 67 anni, ed un arsenale di progetti ancora nel cassetto. Nel 2019, grazie anche alla conduzione millimetricamente allineata di Michele Mariotti, questa Bohème aveva sbancato al Premio Abbiati aggiudicandosi il riconoscimento di opera più significativa dell’anno. A rivederla ora, lungi dall’aver perso smalto, sembra aver acquisito ulteriore valore di documento, di reportage sociologico, tra indagine e denuncia. Questa volta, a far ribollire la buca di un vitalismo incalzante quanto appostato su ogni accento, ogni dettaglio, era un Francesco Ivan Ciampa in stato di grazia. Sotto la sua guida, l’Orchestra del Comunale respirava con le voci: compatta e duttile, timbrata senza abbagli, discreta senza opacità. Uno strumento tentacolare che pungolato dal Maestro consegnava il miracolo di un’opera così impattante da suonare sorprendentemente nuova, intensa fino a ferire, rubata al teatro e restituita ad un realismo crudo eppure magico in cui nulla, ma proprio nulla, era provocazione. Nel suo ribollire vibrava una giovinezza senza tempo, assicurata anche dalla scelta di un cast giovane e di pregevole omogeneità, capace di quella trascolorante coralità che Puccini affida ai vari personaggi come a tessere di un unico mosaico. Una sola moltitudine, mille facce: la sognatrice, la sfrontata, la guascona, la cinica, la tragica. Bohème come la vita a vent’anni. La Parigi dei quadretti tardo impressionisti diventava alla lettera “Barrière d’Enfer”, grigia periferia di ogni città del mondo, anonima, selvaggia, dove tutto l’inconfessabile abita e prolifica: prostituzione di ogni genere, droga che scorre di mano in mano, con guardie che sorvegliano distratte e violente, conniventi e corrotte. E ancora, recinti, siepi metalliche. Confini tra il mondo buono e la suburra. Ma soprattutto, la smarginata periferia come luogo di silenzi tremendi e di tremende rivelazioni. Ciampa lo indicava con chiarezza. Il baricentro della vicenda è lì. In quegli angoli frastagliati in cui i disperati trovano una tana e depongono le uova. Diversi e simili, accomunati dalla stessa predestinazione. Ma soprattutto, è nella verità in cui Mimì inciampa, paralizzata, origliando le parole di Rodolfo: la svolta. Il colpo di pistola che fa partire il conto alla rovescia. Quando Rodolfo, pungolato da Marcello, sbotta con “Mimì è tanto malata”, il passo è già una marcia funebre. Una sentenza. La morte è già a bussare. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Banale, improvvisa. Negli sguardi tra i due amanti, innamorati e sconfitti, nel loro incespicare di parole smozzicate, c’era una tensione quasi insostenibile. Improbabili Tristano e Isotta sperduti sotto un cielo pesantissimo che sembrava avvitarsi su se stesso e risucchiare tutto e tutti nella sua invisibile morsa. Giovani senza genitori né radici, senza morale, senza corazza, esistenze bruciate nell’effimera vampata di un foglio di carta, al gelo di una soffitta. E prima? Com’era la loro vita quando ancora niente era avvenuto? L’ultimo quadro snudava anche questo aspetto, solitamente ovattato dall’epilogo larmoyant. La soffitta, suggerisce Vick, è innanzitutto luogo di espedienti. Si lavoricchia, ma soprattutto si finge, ci si atteggia. È la prova generale di quel teatro che sarà Momus. Si gioca all’essere artisti, pur con qualche talento, e intanto si divide la sorte tra eccessi scambiati per goliardia.

L’orizzonte è un’arruffata distesa piatta declinata all’eterno presente. Esiste l’oggi, esiste l’ora. Chi vuol esser lieto sia. In nome di questo sovrano principio tutto, o molto, diventa lecito. Raggirare il povero Benoît venuto a riscuotere l’affitto e gli arretrati; umiliare sulla pubblica piazza il malcapitato Alcindoro (il bravo Bruno Lazzeretti, per entrambi i cammei), ricco cascamorto ai piedi di Musetta, e burlarsi intestandogli l’esorbitante conto del proprio gozzovigliare. Ma, in senso opposto, anche l’essere capaci di atti di improvvisa generosità, agiti con la stessa buona, distratta leggerezza: vendere manicotti e zimarre per procurare cure che già si sanno tardive. I soldi, termometro di tutto. Il motore dell’azione. Per godere, per curare, per tenersi a galla, anche solo per un’ora. La loro momentanea comparsa accende passioni, l’assenza incrina rapporti in costante bilico. Andava incarnata da voci giovani, incisive, spudoratamente sincere, questa Bohème che non dimenticheremo. Nessuna indugiante in autocompiacimenti, tutte limpidamente convincenti nella loro intima adesione alla complessa geografia di ogni personaggio. Quella di Musetta, una torreggiante Valentina Mastrangelo, vampira con cuore, giustamente acida e stillettante, accanto al Marcello virile e spumeggiante di Andrea Vincenzo Bonsignore, irresistibile gradasso a cui tutto si perdona.  E quelle dei due personaggi laterali: il Colline dal look di rider e dal fare ben educato di Francesco Leone, puntuale ad impreziosire la banda con sobrietà e saggezza, ingredienti essenziali per contrappuntare la focosa esuberanza degli altri, e lo Shaunard caustico di Paolo Ingrasciotta. Toccanti per fine sensibilità e per resa espressiva anche le prove di Francesco Castoro – un Rodolfo scenicamente non sempre brillante ma dotato di uno smalto vocale luminoso e naturalissimo – e Benedetta Torre, capace di dare al suo strumento la plasticità per disegnare in un arco di stringente drammaticità il percorso emotivo ed esistenziale della sua Mimì. I loro autoritratti suonavano veri, convincenti, scatti rubati a giorni qualunque. Qui tutto era naturale, anche la gelida manina, la ragazza che crea fiori, la chiave che non si trova. Tutto profumava di vita non in posa. In apertura di sipario, l’omaggio, doveroso ad un altro grande uomo di teatro scomparso in questo 2021 ingrato: Gianluigi Gelmetti, indimenticabile artigiano della musica.