
Il capolavoro pucciniano al Teatro Comunale nell'allestimento firmato da Damiano Michieletto
Dimenticate paraventi, oleografie e bozzetti ammiccanti ad un imprecisato oriente da cartolina. Nessun tappeto, niente kimoni. Al Comunale di Bologna, la scorsa domenica 23 febbraio – seconda recita prima di chiudere i battenti causa rischio di corona virus - il Giappone aveva i contorni di un’attualità brutale e sanguinante, offerta a buon mercato su piatti di plastica, tra paillettes e sguaiata, tristissima cortesia. Il cielo in cui vola la Butterfly di Puccini è oggi questo, sembrava dire la regia impietosa di Damiano Michieletto: una Nagasaki postmoderna e desolante, tutta insegne luminose e cartelloni di ragazze invitanti ad un sesso mordi e fuggi che solo il mistero di didascalie in un alfabeto a noi arcano sembrava ammorbidire nell’inaccettabile implicazione. Un vero e proprio paese dei balocchi per un turismo predatorio ed arraffone, privo di coscienza e di rigore, a caccia di bambine dagli occhi di bambola e dalle movenze ossequiose. Di farfalle da catturare e trafiggere con uno spillo per poi esibire, crocifisse, in una teca come trascurabili, esotici trofei.
In buca, in questa ripresa di una produzione proveniente dal Regio di Torino, la valorosa orchestra del Comunale veniva esaltata dalla torreggiante conduzione di Pinchas Steinberg, al cui sguardo la partitura sembrava scogliere ogni segreto. Nelle braccia un mestiere ferreo e, nella mente, quella flessibilità illuminata che serve a penetrare una scrittura dove è l’insinuazione, il trasalimento, il presagio ad increspare le linee; così Steinberg regalava a questa Butterfly il valore aggiunto di un asciutto quanto commosso disincanto, di una naturalezza crepitante capace di srotolare dalla tela preziosismi senza artificio, di un fiato a campata unica, minuzioso senza frammentazioni. Prima di polverizzarsi in rivoli di esitante introspezione, Il fugato dell’incipit suonava netto, a spigoli vivi, quasi addentato dagli archi con mordace vigore: d’altronde è già lì il rovello della farfalla, il suo vano svolazzare attorno alle pareti della propria prigione che sulla scena era una casa in plexiglas per lucciole tristi, peripatetiche senza sorriso in attesa della rete fatale del cliente.
In questa città senza cuore, caotica eppure muta, promiscua e maleodorante di fritture ed un’umanità dimenticata irrompeva la nera berlina di Pinkerton (un puntuale Raffaele Abete dai tratti giustamente volgari e rudi) e con lui, oltre al meschino Goro – procacciatore di carne fresca da catalogo - un occidente tutto birra e vizi, strapotere ed un’indecente voglia di divertirsi ad ogni costo. Qui, come in un gioco del tutto svincolato dalla realtà, l’uomo cattura la sua farfalla, una ragazzina quindicenne che a lui si darà senza riserve, mettendo nelle sue volgari mani la propria esistenza senza alcuna esitazione, con una caparbietà ostinata che solo i cuori puri sanno preservare. La sposa con un matrimonio che da subito sa di carnevalata buona più per festini da baraccone che per l’amore. Mondi lontani, incommensurabili. L’immensa quanto contegnosa gioia della sposa, la sua innocente speranza la portavano a salire sul tetto per cantare il suo amore al cielo stellato. Lui, lo sposo, rimaneva giù, a scolarsi una bottiglia via l’altra e ad ammirare la sua sposa da sotto, quasi per scorgerle, dal tetto, le mutandine sotto l’abito bianco, prima di raggiungerla per consumare con lei un amplesso sbrigativo e quanto mai lontano dalla tenerezza sognata dalla giovane consorte.
Della violenta vertigine di qualche breve notte, di un amore snocciolato in lingue e gesti destinati a non capirsi, ben poco sarebbe rimasto alla povera sposa bambina: un paio di jeans attillati ed una maglietta di Hello Kitty, un’altalena vuota ed ancora dondolante nel giardino una casa – gabbia dalle cui vetrate tutto parlava di assenza. Dal tetto, come dalla collina da cui scrutare le navi in arrivo, una Butterfly ancora giovane ma già sfiorita ingannava i giorni guardando il pettirosso in gabbia, sorda alle lusinghe del principe Yamadori, un bravo Luca Gallo, così come ai paterni quanto vigliacchi consigli di Sharpless (che domenica aveva la voce e la presenza di un magnifico Gustavo Castillo). Incrollabile, sotto gli occhi sempre più ansiosi della fedele Suzuki (una Cristina Melis ancora una volta pienamente padrona del suo sfaccettato personaggio, servile ed autorevole al tempo), insensibile al ripudio dello zio Bonzo (l’ottimo Nicolò Ceriani), dei parenti, delle risorse che cominciavano a scarseggiare, la povera “signora Pinkerton” giocava strenuamente in difesa, arroccata all’idea del ritorno di un Ulisse senza qualità alcuna, e attendeva.
Intanto, a dar senso alle sue giornate vuote era il bambino, unico frutto di un amore acerbo e brutale: Michieletto ne disegnava un profilo a tre dimensioni, immergendone la figura in una vita reale fatta di scuola, di pomeriggi passati a coltivare fiori, di compagni bulli pronti a distruggere le navi di carta che popolavano i suoi sogni notturni. Al riaffacciarsi della berlina nera di Pinkerton, questa volta con tanto di procace signora al seguito, Butterfly capiva che per lei stava iniziando l’ultimo volo. Questa volta la preda di quell’uomo venuto dai confini del mare sarebbe stata il figlio a lui ancora sconosciuto. Da aggiudicarsi a tutti i costi, col denaro o con la forza. Interpretata da un’intensa Svetlana Kasyan, dai pregevoli mezzi vocali e dalla spiccata espressività, a dispetto di una zona acuta talvolta polverosa, la dolce farfalla decideva così di morire. Non di spada ma di pistola, quella stessa pistola sottratta a Goro. Sola, nella casa di plexiglas, dopo aver fatto sedere il bambino di schiena sull’altalena. Un istante e tutto accadeva: lo sparo, la corsa disperata del figlioletto dalla mamma, l’abile tempismo di Pinkerton pronto a ghermirlo e a cacciarlo brutalmente nell’oscurità dell’auto nera. Sulla bella Butterfly, sul suo corpo esanime, nessuno a piangere. Solo le luci crude di una scena vuota.