La regista Jean Renshaw azzecca un riuscito adattamento teatrale della rara opera di Johann Mattheson alle Innsbrucker Festwochen der alten Musik
Come terza opera, affidata ad un cast interamente composto da giovani cantanti, la kermesse tirolese sceglie una piccola rarità, riscoperta e rappresentata per la prima volta solo agli inizi degli anni 2000, il “Boris Goudenow” composto nel 1710 ad Amburgo da Johann Mattheson e mai andato in scena ai tempi dell’autore.
Mattheson era, intorno all’inizio del 1700, molto impegnato ad Amburgo nell’attività musicale che ruotava intorno all’Opera al Gänsemarkt (letteralmente l’opera al mercato delle oche). Compositore, librettista, organizzatore; sarà molto amico di Haendel, anche lui ad Amburgo in quel periodo, fino però a litigarci con tanto di sfida a duello dove, pare, Haendel si salvò solo grazie ad un bottone di metallo che lo protesse dalla pallottola del rivale. L’opera al Gänsemarkt era ai tempi, e lo resterà per molto, l’unico teatro musicale in Germania con una programmazione regolare, essendo finanziato dal senato dell’autonoma città stato anseatica e pertanto non soggetto al capriccio dei vari principi degli innumerevoli staterelli tedeschi.
Il Boris Goudenow è stato perciò sicuramente pensato per la buona borghesia mercantile e tratta di amore, ma soprattutto di ragion di stato, politica e potere. I recitativi sono in tedesco, mentre le arie, probabilmente rapinate qua e là, in italiano, per assecondare la moda corrente. La trama è di una complicazione al limite del caotico e l’opera non andò mai in scena ai tempi dell’autore, non si sa se ritirata volontariamente o per opportunità politica nei confronti del potente partner commerciale russo.
La regista Jean Renshaw affronta di petto la partitura, la modifica, crea una nuova drammaturgia e la propone come un moderno pezzo di teatro, ottenendone uno spettacolo accattivante, suggestivo e simbolico. La storia viene organizzata intorno ad una lunga tavolata - scene di Lisa Moro - che funge via via da passerella per l’incoronazione, tavolo anatomico e molto altro; i cantanti sono bardati con fantasiosi costumi, a cura di Anna Ignatieva, che richiamano parzialmente l’ambiente russo ma sfociano anche in eclettici e stimolanti accostamenti. Le belle luci di Leo Göbl completano un quadro teatrale accurato ed efficace.
La trama in musica, che rimane comunque confusa, si dipana in una serie di belle trovate che vivacizzano l’invero un po’ monotono alternarsi di arie e pezzi di insieme proposti dal compositore. Così troviamo lo Zar morente trascinato in scena su una sedia a rotelle da un’avvenente infermiera, lo stesso Zar che viene ucciso su un tavolo operatorio dagli altri personaggi travestiti da medici, oppure i numerosi annunci che vengono comunicati, con spassosi “a parte”, tramite telefoni a forma di banana. Non manca l’ubriacatura delle protagoniste che, affrante dalla complicazione delle proprie liaisons amorose, si scolano con costante lucidità una tavola piena di bottiglie di vodka. Ad unire il tutto, oltre alla neve che cade copiosa in una soffusa e suggestiva luce invernale, la costante presenza in scena dell’attore Sebastian Songin, con tanto di maschera d’orso forse a rappresentare la grande madre Russia. Egli sistema le sedie, porta avanti e indietro i numerosi oggetti simbolici sparsi dalla regista a piene mani durante lo spettacolo, improvvisa improbabili balletti in tutù e, ogni tanto, si lascia andare a citazioni recitate da brani famosi della letteratura teatrale.
Il tutto si conclude con l’unione delle coppie e la presa del potere da parte di Boris, che, senza pietà, elimina ogni protesta facendo uccidere nuovamente con un colpo di pistola alla nuca il vecchio Zar che, redivivo anche se in tutina a foggia di scheletro, espone un cartello di protesta urlando slogan da manifestazione contemporanea. Sul coro finale appare sullo sfondo un inquietante figuro con la maschera di Putin, a ricordarci che forse la filosofia del potere in Russia non è mai veramente cambiata.
Lettura intelligente, complessa, concreta e ben orchestrata quella della Renshaw, che però non salva lo spettacolo da una certa lungaggine soprattutto nel secondo atto, dove l’inventiva diventa ripetitiva e la musica di Mattheson, con una serie monotona di arie a solo, certo non aiuta.
Andrea Marchiol ben dirigeva la partitura a capo dell’Ensemble Concerto Theresia, anch’esso composto interamente da giovani musicisti specializzati nella musica barocca. Una lode a tutti i giovani cantanti, che, oltre ad aver tutti ben cantato, sono riusciti sempre a rendere dei personaggi teatralmente complessi e sfaccettati, mostrando una buona capacità attorale e di immedesimazione. Boris era il basso Olvier Gourdy, che ha convinto per vocalità e presenza scenica. Yevhen Rakhmanin, nella parte dello Zar, ha mostrato una bella e impostata voce di basso profondo azzeccando un bel cameo nella sua ultima aria “Nella man di chi la fece sta la vita del mortal”. Ottimamente interpretati tutti i personaggi femminili affidati a Julie Goussot, Flore van Meersche e Alice Leckner. Così come il resto del cast maschile: Sreten Manojlovic, Eric Price e Joan Folqué. Una menzione speciale all’attore Sebastian Solgin che riesce a creare un costante ed efficiente trait d’union fra la partitura e la drammaturgia.
Vivo successo a fine serata per tutti gli interpreti.
R. Malesci (24 Agosto 2021)