Recensioni - Opera

Brescia: Don Carlo ai tempi della STASI

Al Teatro Grande il capolavoro verdiano in un allestimento che ne esalta la componente oppressiva

Ultima, ma solo dal punto di vista cronologico, tra le produzioni del Circuito Teatrale Lombardo, Don Carlo di Giuseppe Verdi ha concluso la stagione lirica 2023 al Teatro Grande di Brescia.
Come accade nella maggior parte dei teatri -altrettanto si è fatto nel circuito emiliano il mese scorso ed al Teatro alla Scala in questi giorni- tra le varie edizioni disponibili è stata scelta la versione in italiano in 4 atti che Verdì realizzò per la Scala nel 1884 e che, rispetto alle due versioni in 5 atti, ovvero quella francese del 1867 e quella di Modena del 1886, si caratterizza per concisione ed asciuttezza, ridimensionando l’aspetto di Grand Opéra e concentrando l’attenzione sulle vicende umane della casa reale spagnola ed in particolare sulla figura di Filippo II.

Ciò non toglie che Don Carlo sia anche un grande affresco storico nel quale Verdi ha affrontato uno dei temi a lui più cari ovvero quella della difficile convivenza tra potere politico e potere religioso. Ed infatti è proprio in questa direzione che si è mosso il regista Andrea Bernard che ha ambientato la vicenda in un ipotetico stato totalitario della metà del secolo scorso che dal punto di vista della scenografia -firmata da Antonio Beltrame, mentre i costumi sono di Elena Beccaro- rimanda alla DDR, in cui i protagonisti vengono sorvegliati da spie munite di cuffie e microfoni in un clima cupo intriso di sospetto. Dal suo studio Filippo II può controllare quanto accade all’Escurial grazie ad una parete di 15 schermi televisivi che però in presenza del Grande Inquisitore si oscurano proiettando una grande croce, a simboleggiare che il potere della chiesa è ancora più grande e pervasivo. Dominante è il simbolo dell’occhio: da una grossa luce ellittica che ricorda le lampade degli interrogatori che incombe costantemente sulla scena, all’operazione di accecamento dei condannati che conclude l’Auto da fé, agli schermi televisivi di Filippo II che ad un certo punto si riempiono di occhi rendendolo un novello Dottor Mabuse.
Tutto si svolge in un clima costante di terrore e sopraffazione: l’unica scena che il libretto vorrebbe un po’ distesa in quanto ambientata “in un sito ridente”, ovvero quella di Eboli nel primo atto, viene invece risolta con una violenza di gruppo su alcune cortigiane che ritroveremo successivamente private di un occhio; la Contessa di Aremberg, rea di aver lasciato sola Elisabetta, viene allontanata e presumibilmente uccisa dato che rientra successivamente su un tavolo da obitorio dal quale si rialza per intonare il canto della Voce dal cielo mentre i deputati fiamminghi si apprestano ad essere torturati.
Un’impostazione interessante, indubbiamente coerente che ha forse il limite di concentrarsi solo su un aspetto dell’opera, accentuandone il clima cupo e claustrofobico e livellandone la complessità.

Alterno l’aspetto musicale che ha visto i vari interpreti crescere nel corso dello spettacolo e raggiungere i risultati migliori negli ultimi due atti, in particolare il Filippo II di Carlo Lepore, indubbiamente il migliore sulla scena. Il basso napoletano, al suo debutto nel ruolo, ha sfoggiato un fraseggio morbido ed espressivo supportato da un timbro caldo e pastoso. In una replica in cui gli applausi a scena aperta sono stati abbastanza contenuti, quello al termine di “Ella giammai m’amò” è stato sicuramente quello più convinto.  Paride Cataldo è stato un Don Carlo dal timbro squillante e generoso, forse non sempre perfettamente a fuoco dal punto di vista interpretativo, mentre il Rodrigo di Angelo Veccia, nonostante un timbro a tratti un po’ruvido, spiccava per intensità e veemenza sulla scena. Rimarchevoli anche le prove degli altri due bassi ovvero Il Grande Inquisitore di Mattia Denti, presentato in sedia a rotelle ed affetto da parkinson, ed il Frate di Graziano Dallavalle. Sul versante femminile l’Elisabetta di Clarissa Costanzo si segnalava per la cura del fraseggio ed una solida linea di canto, nonostante qualche screziatura nel registro acuto, mentre Laura Verrecchia ha interpretato un’Eboli scenicamente credibile, intensa ed appassionata, che ha ottenuto un successo personale al termine dell’aria “O don fatale”.

Interlocutoria è stata la direzione di Jacopo Brusa alla testa dell’Orchestra dei Pomeriggi musicali, nel complesso corretta ma non sempre incisiva, soprattutto nella prima parte, mentre il coro di Operalombardia diretto da Massimo Fiocchi Malaspina, costretto a rimanere immobile su una tribuna rialzata durante i tutti i suoi interventi, è stato protagonista di una prova nel complesso apprezzabile.
In crescendo anche la risposta del pubblico che, se all’inizio è stato più prudente negli applausi al termine ha tributato a tutti un consenso unanime.