Lo spettacolo va in scena nonostante uno sciopero annunciato
È una prima rappresentazione monca, quella di “Cavalleria Rusticana” all’Opera Carlo Felice di Genova. Uno sciopero, indetto dal sindacato Snater per sottolineare che i lavoratori del teatro ligure percepiscono stipendi non in linea con quelli ricevuti dagli appartenenti ad altre fondazioni lirico sinfoniche, ha rischiato di far saltare lo spettacolo. Alla fine il capolavoro di Mascagni viene messo in scena regolarmente, ma il coro è dimezzato e manca l’arpa. All’ingresso in teatro sono distribuiti dei volantini per informare il pubblico di questa delicata situazione, ma quando si spengono le luci in sala e il giovane direttore Davide Massiglia sale sul podio e saluta gli spettatori, l’interesse di tutti è rivolto esclusivamente alla musica.
L’allestimento è in coproduzione con la Fondazione Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, la regia è curata da Luigi Di Giangi e Ugo Giacomazzi, il duo dei “Teatrialchemici”. Carina la scenografia: una piazza, con due scalini che conducono nei pressi delle case sullo sfondo, a destra vi è la chiesa con la sua porta d’ingresso. E poi vi sono le maschere, indossate dai bambini, alcune dai tratti terrificanti.
Veronica Simeoni è una splendida Santuzza. Il mezzosoprano romano offre una performance efficace. La sua mimica, l’eloquente gestualità, i movimenti emblematici del suo corpo, espressione di una donna che sospetta e scopre il tradimento del suo uomo, si accompagnano ad una vocalità imponente, colorita, a tratti struggente (è il caso di “sono scomunicata”, l’urlo di dolore che conclude il musicalmente interessante dialogo con mamma Lucia, e che sorprende e mette a tacere per un istante l’intera orchestra, e di “A te la mala Pasqua, spergiuro!”, una fitta al cuore accompagnata dal tremolio degli archi che preannunciano l’avvicinarsi di una tragedia annunciata, alla fine del profondo duetto con Turiddu).
Applausi per il baritono Gezim Myshketa. Il suo Alfio è un personaggio terribilmente reale, che entra in scena schioccando la frusta e intonando la sortita “Il cavallo scalpita”, accompagnato dai simpatici bambini mascherati, anch’essi provvisti di frusta. Dalla gioia che deriva dalla passione per il lavoro di carrettiere alla delusione per il tradimento della moglie Lola con Turiddu, una ferita che lascerà presto spazio ad un’ira incontenibile e fatale. La voce di Myshketa è scura e ben solida. Il duetto tra il baritono e la Simeoni è lo scontro tra due artisti che provano e ben traducono sul piano sonoro ed interpretativo emozioni forti e contrapposte.
La Lola messa in vita dal mezzosoprano Nino Chikovani riesce ad apparire antipatica e spocchiosa sin dal suono delle prime note del bel brano “Fior di giaggiolo”, in forma di valzer, che canta fuori scena. Chikovani, in elegante abito bianco che contrasta con lo scuro vestito luttuoso che indossa Santuzza, mostra una voce agile, ben calibrata, gradevole.
Turiddu è affidato a Luciano Ganci che esibisce il suo timbro vigoroso, potente e squillante. Non sarà forse la sua migliore serata, ma l’artista romano è un tenore dal talento noto e la sua performance viene salutata da caldi applausi da parte del pubblico.
Completa il cast principale mamma Lucia, impersonata dal soprano Manuela Custer, che piace per la sua interpretazione spontanea e genuina di un personaggio che, a seconda delle circostanze, sa mostrarsi comprensivo e rassicurante, fragile e debole.
In “Cavalleria rusticana” la musica non è mai elemento di contorno, accompagnamento o sottofondo, basti pensare al fatto che quest’opera è conosciuta dagli appassionati soprattutto per il suo Preludio introduttivo, ma specialmente per l’Intermezzo sinfonico, il momento in cui il racconto della vicenda conosce un momento di pausa e le note suonate dagli orchestrali disegnano una melodia dal forte impatto emotivo che incanta e porta gli astanti a dimenticare dove la vicenda si stia dirigendo e l’epilogo di sangue che concluderà la storia.
Nella recita domenicale, insieme al cast principale e in assenza di scioperi, il coro è presente al gran completo, così come nel golfo mistico si colloca l’arpa. I due brani strumentali assumono un altro colore, l’atmosfera è celestiale, grazie agli arpeggi eseguiti dall’arpa e la bellezza estetica di questi pezzi raggiunge il culmine del pathos. L’ottimo coro esegue magistralmente il “Regina Coeli” a cui segue “Inneggiamo, il Signor non è morto” (quanto emoziona la Simeoni!), ed il brano “Viva il vino spumeggiante”, guidato da un coinvolgente Luciano Ganci.
Curiosità. Quando si spalancano le porte della chiesa, il prete che dirige il canto dei fedeli è il Maestro del coro Claudio Marino Moretti. Durante il “Regina Coeli”, i coristi offrono le spalle alla platea e seguono i gesti delle mani di Moretti, che li guida. Quando poi si attacca con “Inneggiamo, il Signor non è morto”, essi si voltano nuovamente in direzione del pubblico. Un momento di vero spettacolo, a contorno di una grande musica.
Qualche parola va scritta sull’operato dei registi Di Giangi e Giacomazzi, che inseriscono due scene non presenti nel libretto di “Cavalleria”. La prima, all’inizio. Turiddu canta fuori scena il suo amore a Lola e i bambini che, all’alzarsi del sipario si presentano addormentati in piazza, si ridestano, e uno dopo l’altro corrono in fondo al palcoscenico, dove avvertono provenire il suono.
Appare Santuzza, sospettosa e forse già piegata da un presentimento che le logora l’anima, e cerca con cattiveria di afferrare i piccoli che riescono a sfuggirle. Il finale. Dopo il grido disperato “Hanno ammazzato (a) compare Turiddu”, nello stupore e nel pianto generale ecco Alfio con la camicia macchiata di sangue e il coltello che lascia cadere a terra mentre incrocia lo sguardo di mamma Lucia che non sviene, ma si erge in piedi e lo fissa con stupore e odio insieme.
Alfio sembra stravolto, pentito, ma in Sicilia ci sono leggi non scritte che vanno rispettate e chi tradisce vien punito con la morte. Turiddu non poteva sfuggire a questo implacabile destino.